Antonio Monda
NEW YORK – Il libro del sale, di Monique Truong, è un romanzo raffinato e appassionante che esce ora da Giunti (pagg. 325, euro 14,50) a quattro anni dalla pubblicazione americana, con un successo sorprendente per una autrice che sino a quel momento si era distinta come abile avvocato presso uno dei più prestigiosi studi legali di New York. La Truong, nata a Saigon nel pieno della guerra del Viet-Nam, si è trasferita negli Stati Uniti nel 1975, a sette anni, e da allora si è interrogata sul senso di appartenenza rispetto al suo paese di origine e alla terra di adozione nella quale ha trovato l’ amore (è sposata con un disegnatore di animazione dalle origini slovene e siciliane). Il romanzo, che racconta le vicende di un cuoco vietnamita al servizio di Gertrude Stein ed Alice Toklas nella Parigi della Festa mobile, affronta in maniera indiretta proprio il tema dell’ identità culturale, e pone al centro della storia il dilemma di Binh, il giovane cuoco di ventisei anni, il quale, dopo essere stato ripudiato dal padre, e quindi espulso dal proprio paese con l’ accusa di omosessualità, è indeciso se partire per gli Stati Uniti o rimanere nella vitalissima Parigi di quegli anni, dove ha instaurato un rapporto controverso, ma certamente intenso, con due donne assolutamente fuori dal comune. La vicenda, raccontata come se fosse un diario, si svolge andando avanti e indietro nel tempo, con lunghe divagazioni sulla preparazione di piatti raffinati. L’ attaccamento della Truong alla Francia e al cibo francese è evidente anche dal luogo in cui ha scelto di incontrarmi, il ristorante Balthazar di Soho, una replica esatta di un bistro parigino. “Mi chiedo ogni giorno cosa sarei diventata se fossi rimasta in Viet-Nam” racconta “e mi chiedo quanto sia giusto continuare a pensare al passato. Ritengo che la grande conquista di ogni esistenza sia quella di non perdere mai le proprie radici ed essere pronti ad abbracciare quello che offre il futuro”. E’ mai tornata in Viet-Nam? “Pochi giorni fa sono tornata dal primo viaggio che ho fatto nel mio paese da quando ci siamo trasferiti in America. Sono voluta andare per tre settimane insieme a mia madre, ed è stata un’ esperienza estremamente forte”. Quando lei è andata via dal Viet-Nam, la città in cui viveva si chiamava Saigon. Ora si chiama Ho Chi Minh City. “Le posso dire che mi ha colpito il fatto che gli abitanti continuano a chiamarla con il vecchio nome, e persino il codice dell’ areoporto è ancora SGN. Ma ovviamente i cambiamenti sono enormi, anche se devo dirle che sono arrivata con ricordi molto frammentari, legati soprattutto alla casa in cui vivevamo, nella quale non siamo andate”. Cosa ricorda dell’ arrivo negli Stati Uniti? “Arrivammo come rifugiati, mio padre riuscì a trovare lavoro presso la compagnia petrolifera Shell, per cui lavorava anche in Viet-Nam. I compagni di classe mi consideravano una nemica, o quantomeno figlia di nemici. E ricordo che con una buona dose di ignoranza mi chiamavano la giapponese”. Il suo romanzo affronta il tema della appartenenza. “E della scelta. Ogni momento di ogni esistenza pone una questione che rimanda alla consapevolezza di chi siamo, come cambiamo, cosa perdiamo… L’ idea iniziale nasce dalla lettura, del tutto casuale, del libro di ricette di Alice Toklas. Stavo cercando di imparare il modo di cucinare un brownie di cui sono molto golosa, e qualcuno mi aveva detto che la ricetta originale era proprio della Toklas. Il libro fu una rivelazione: estremamente divertente, pieno di aneddoti, soprattutto, c’ è un intero capitolo dedicato alla servitù in Francia. Si parla esplicitamente di due donne di servizio indocinesi che lavoravano nell’ appartamento in cui vivevano la Toklas e la Stein al 27 di rue de Fleurus. In quel momento dentro di me è scattato qualcosa”. Lei è un’ ammiratrice di Gertrude Stein e Alice Toklas? “Devo confessarle che non sono particolarmente legata al loro mondo né alle loro opere, e mi piace essere arrivata al loro universo creativo in modo così anomalo, dalla cucina”. Quali sono gli elementi autobiografici del suo romanzo? “La difficoltà nell’ esprimermi in un linguaggio non mio. Il fatto di essere silenziosa e timida come il protagonista, e di sentirmi al servizio”. Cosa intende? “E’ quello che provavo quando lavoravo come avvocato: avevo raggiunto una posizione di una certa autorevolezza, ma mi sentivo sempre precaria, e alle dipendenze di una società interessata ai risultati”. Il passaggio dalla giurisprudenza alla scrittura è anomalo, specie per chi non scrive legal thriller… “Ho praticato la legge per trovarmi tra le mani un lavoro sicuro. Ma ho capito in breve tempo che non ero affatto felice, e il lavoro non era sicuro. A quel punto ho deciso di seguire la mia passione”. E’ vero che all’ inizio Il libro del sale era un racconto? “Si, e il racconto è diventato, con qualche piccola variante, il secondo capitolo del romanzo. Dopo averlo scritto ho avuto la sensazione che avesse le potenzialità per qualcosa di più grande. Devo ringraziare la mia sconsideratezza: se solo mi fossi soffermata a pensare che mi avventuravo in un romanzo storico, ambientato a Parigi, con protagonisti dei personaggi realmente esistiti, probabilmente la paura mi avrebbe paralizzato. Il titolo del libro è molto evocativo: come mai parla di sale? “L’ ho scelto con l’ augurio che suggerisca una lettura a due diversi livelli: il sale è un elemento fondamentale della cucina, presente in ogni cultura. Ma è soprattutto un riferimento alla Bibbia. Penso al sale della terra, e all’ episodio di Lot, trasformata in una statua di sale nel momento in cui si volta indietro. Mi ha sempre colpito la condanna della nostalgia operata dalla cultura giudaico-cristiana, e la tentazione di Lot è qualcosa che provo perennemente”.