12 Settembre 2009
Tuttolibri

Giù la piazza c’è Dolores

L’opus magnum della Prato prima delle forbici di Natalia Ginzburg

Andrea Cortellessa

A ventisei anni dalla morte, si può dire finalmente compiuta la restituzione di Dolores Prato alla nostra letteratura. Con essa, in vita, l’autrice marchigiana (ma per caso nata a Roma nel 1892) non ebbe commerci semplici; il suo esordio cadde infatti, a ottentotto anni!, solo nel 1980, da Einaudi: con la versione dell’opus magnum, Giù la piazza non c’è nessuno, assai ridotta da un editor d’eccezione quale Natalia Ginzburg.
Seguì una piccola leggenda nera: l’anziana scrittrice fece sapere che i tagli (equivalenti a quasi due terzi del testo) avevano gravemente snaturato la sua opera. Ogni lettore poté farsi un’idea quando nel ’97 Giorgio Zampa (dopo aver curato da Adelphi l’edizione di un più breve “seguito” di Giù la piazza, Le ore) riuscì a pubblicare, da Mondadori, il dattiloscritto completo.
A mia volta, lettore finora solo parziale dell’opera, m’ero fatto del lavoro della Ginzburg una pessima opinione; ma, reduce ora da un’impegnativa lettura integrale, mi sento di almeno in parte rivalutarlo. L’opportunità di ridurre il corpo di Giù la piazza, nell’ipotesi (poi scarsamente concretizzatasi) di raggiungere un pubblico relativamente ampio, appare infatti evidente; così come sacrosanta quella di consentire, poi, una lettura integrale di quello che resta uno dei capolavori della prosa italiana del Novecento. Lettura che solo ora torna possibile: grazie all’iniziativa di Quodlibet, che ha scelto di riprodurre il testo fissato da Zampa (nel frattempo, l’anno scorso, scomparso a sua volta).
Considerazioni più sottili, semmai, vanno fatte sul come vennero operati i tagli. Il che ci introduce nel più spinoso dei problemi: che cos’è, in effetti, Giù la piazza non c’è nessuno? In copertina c’è infatti scritto “romanzo”, e proprio questa fu l’ipotesi di lavoro (e la scommessa persa) della Ginzburg: ricondurre il più possibile al canone narrativo tradizionale un testo che si ribellava, invece, alla radice.
La più acuta lettrice della Prato, Monica Farnetti, ha sottolineato un aspetto fondamentale da ultimo in uno dei saggi compresi nel bel volume Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga, pp. 332, € 17): se materia specifica della narrazione è il tempo, nel testo della Prato trionfa invece la categoria dello spazio. Più che come romanzo e autobiografia, Giù la piazza non c’è nessuno va allora letto come “Atlante delle emozioni” (per dirla con Giuliana Bruno): dettagliatissima cartografia sentimentale di un luogo “mitico”, la cittadina di Treja, dove Dolores, abbandonata dai genitori e cresciuta da una zia anaffettiva e da un ingegnosissimo zio prete, crebbe nei suoi primi dodici anni.
Di Treja la scrittrice vuole “ritrovare”, nella memoria, tutto. Ogni strada, ogni bottega, ogni caso sono trasfigurate in capitoli di stupefacente virtuosismo descrittivo, che interdicono ogni reale sviluppo narrativo; il tempo è un eterno imperfetto che sospende ogni sensazione in un’aura di microscopica, dorata eternità. L’unica “storia” che si sviluppa, o meglio che si trova già all’inizio dispiegata in Giù la piazza, è la travagliata presa di parola (una parola nutrita, sin dal titolo, da fervidi succhi popolari) da parte dell’autrice-protagonista. Evidente a questo punto il debito con Proust, così come l’apparente vicinanza a una proustiana di lungo corso quale la Ginzburg (che dovette ispirare l’idea di affidarle l’editing) nonché, da essa, la sua effettiva distanza (che quell’editing orientò in direzione incongrua) Esemplare il confronto tra l’incipit di Giù la piazza, “Sono nata sotto un tavolino”, e del testo “parallelo”, Lessico famigliare: “Nella mia casa famigliare”. Tanto il luogo che il linguaggio sono nella Prato all’insegna dell’inappartenenza, laddove la Ginzburg ne rivendica fieramente il possesso.
Ciò che rende affascinante quanto stremante la lettura di Giù la piazza è la densità parossistica delle “epifanie”. E’ come se campanili e madeleines, nella Recherche, ricorressero ad ogni pagina: non solo non è possibile la narrazione lineare, ma neppure quella musicalmente organizzata che Proust ha insegnato al Novecento. Per capire in quale direzione avesse lavorato la Prato è illuminante la lettura, per il resto non molto più che un gradevole intrattenimento, del primo suo libro, scritto nel 1948 ma pubblicato, a pagamento, solo nel ’63; e che viene pubblicato ora, per la prima volta nella ne varietur dell’autrice, da Avagliano. Si tratta infatti di un “vero e proprio romanzo” (come lo definisce, con opinabile soddisfazione, la curatrice): nel quale sono bensì presenti, ma solo in nuce, gli elementi che faranno l’unicità dell’opera maggiore (la stasi di esistenza coartate nell’attesa di eventi impossibili, la passione ossessiva per il loro luogo di reclusione, l’estasi sensoriale che quelle esistenze riscatta); e nel quale gli elementi simbolici-chiave (che intitolano fra l’altro le sue due versioni La rosa muscosa e appunto Campane a Sangiocondo) sono ripresi pari pari dall’opera, e dall’anedottica, proustiane; così come scolastica appare la conduzione per leitmotiv. Si pensi a cosa era stato invece capace di fare, con l’icona delle campane e del loro suono, un proustiano sui generis come il Gadda della Cognizione del dolore…
E’ possibile che in tempi come i nostri, di soffocante conformismo neoromanzesco, arrida maggiore successo alla Prato “tradizionale”, l’apprendista di Campane a Sangiocondo, che a quella audace e “impossibile” in Giù la piazza non c’è nessuno. Ma è una buona notizia che ciascun lettore – come a suo tempo, con eroica intransigenza, l’autrice – possa oggi, tra le due, fare la propria scelta.


Dolores Prato
Giù la piazza non c’è nessuno
A cura di Giorgio Zampa, con una nota di Elena Frontalini
Quodlibet, pp. 704, € 28

Dolores Prato
Campane a Sangiocondo
A cura di Noemi Paolini Giachery
Avagliano, pp. 309, € 15

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