17 Luglio 2015
societadelleletterate.it

Gli anni cruciali di Annie Ernaux

di Alessandra Pigliaru


«Sarà una narrazione scivolosa, in un imperfetto continuo, assoluto, che divori via via il presente fino all’ultima immagine di una vita». Così chiosa Annie Ernaux, riferendosi al suo libro pubblicato in Francia nel 2008 e di recente tradotto da Lorenzo Flabbi per L’orma editore con il titolo Gli anni. Conclusa la lettura, un senso di gratitudine potrà pervadervi senza alcun preavviso. In questo splendido, sorprendente e a tratti commovente volume, Annie Ernaux restituisce infatti una scrittura, la sua, di impareggiabile eleganza e profonda competenza. Per sua stessa ammissione, si tratta di un’autobiografia impersonale, dando a questa accezione il carattere potentemente materiale di chi preferisce il noi collettivo a un io singolare, passando specularmente a un «lei», cioè a questo «continuamente altro».

Se è vero che siamo impastati dal tempo, è altrettanto vero che per Ernaux il mondo non finisce in una totalità di fatti e che la storia, avendo il coraggio di vedere cosa si agita alle proprie spalle, non è una sola catastrofe che accumula rovine. L’occhio di una scrittura sapiente sa che la lungimiranza è anche un’attitudine da applicare al tempo. Saper tessere corpi e memorie significa dunque non solo una mera passione antiquaria verso la ricostruzione, né la tentazione di trovare un inventario – seppur preciso – da condividere nostalgicamente. Imbastire un’autobiografia impersonale come quella di Ernaux risulta invece un gioco più crudele e azzardato, un transito terso di date e accadimenti affilati che dal dopoguerra arriva ai giorni nostri, una posta in gioco che spinge lontano dall’ineffabilità di un mondo intermittente e che invece viene convocato, ancora e ancora, per appropriarsi della realtà, della letteratura come «strumento di lotta», e della lingua con cui «contava di agire su ciò che la faceva ribellare».

Che la materialità dell’esistenza sia il punto di partenza di Annie Ernaux è un dato incontrovertibile. Lo ricorda appena possibile, commentando anche i suoi libri apparentemente più introspettivi – come Il posto, sulla morte del proprio padre – che invece confessano l’indiscutibile guadagno della sua formazione politica e culturale, del suo sentirsi transfuga da una classe sociale a un’altra, del suo aderire al femminismo materialista francese, del suo nomadismo dalla provincia alle periferie parigine. Gli anni acquista tuttavia maggiore scavo, il processo inesorabile a cui sottopone la propria memoria è il ritratto di una intera coscienza collettiva che dagli anni ’40 del post-liberazione arriva fino ai nostri giorni. Anni descritti perimetrando i molti mutamenti conosciuti: dalla lingua dell’infanzia, miscuglio di francese e patois ricordata come indissolubile dai familiari «corpi stretti» dalle tute da lavoro, fino al suo disconoscimento verso una lingua appresa in età scolare, estranea e al contempo rigenerante. Tutti elementi che vanno a costituire un lessico corrispondente alla contingenza: dapprima la funzione precisa degli oggetti, ogni cosa dotata di un preciso valore d’uso doveva infatti trovare una adeguata sistemazione in un’economia della scarsità, del mondo, delle spiegazioni, l’astuccio, il barattolo dei biscotti, i giornali, il collo delle camicie e i cappotti aggiustati in un sottofondo silenzioso che cercava nominazione, insieme al tempo che si aveva di «desiderare le cose. Possederle non deludeva mai». E quelle che invece non c’erano ma che venivano computate interiormente nel confronto con le altre e gli altri. Il rigore, che ancora non si era depurato dalla vergogna, per la propria coscienza sociale e il cruccio di metterlo in parola.

Gli anni Cinquanta si inanellano per Ernaux alla prima cognizione rispetto ciò che accade fuori di lei, una distanza siderale tra passato e presente di cui però avverte solo lo stridore della personale misura critica non ancora individuata. Aggirandosi come un Roquentin sartriano, racconta, con l’imbarazzo di non riuscire ad autorizzarsi verso l’opacità del reale, Ernaux sa che l’Europa è già tagliata in due e che l’Algeria è imbrattata di sangue. Comincia però a mutare il catalogo della cultura materiale anche se il progresso non ha ancora un aspetto tempestoso: se ne avevano i mezzi, «grazie alle cose le persone potevano contare su un’esistenza migliore». E quel «lei» della scrittura che prende il proprio corpo tra le mani e comincia a rivolgersi alla propria sessualità, al mercato matrimoniale che si faceva sempre più consistente, con ragazze in abito bianco che sei mesi dopo danno alla luce paffuti bambini rigorosamente prematuri. La lingua comincia a diventare il significante di un conflitto non agito e di lì a poco potentemente espresso, gli anni Cinquanta volgono al termine e anche se non si riesce ancora a dire che no, l’esistenza dei corpi non può essere data in pasto agli imperativi categorici e all’ontologia, la giovane Annie tocca finalmente la necessità del proprio di corpo, nonostante «da noi ci si aspettava che accettassimo con naturalezza il perpetuarsi delle cose. Messi di fronte a quel futuro prestabilito avevamo confusamente voglia di restare giovani a lungo».

È a quest’altezza il desiderio di una nuova grammatica che possa dire la materialità su un piano più stringente, di verità. Immanenza, cattiva coscienza e alienazione ma anche la pretesa di impadronirsi del mondo e rovesciarlo di segno. Un ribaltamento che da lì a poco, per la prima volta, non coinciderà più con uno straniamento singolare, le foto che ogni tanto inframezzano la narrazione – che sono poi foto di Ernaux che lentamente muta il proprio corpo, capelli e luminosità dello sguardo – improvvisamente e già coincidono brutalmente con il passaggio a un mondo lontano da quello operaio e del negozietto dei suoi genitori. È a questo punto, nell’irriducibile coscienza di sé e degli anni a venire, che si spezzetta il passato in una dislocazione di piani e ricordi. «Più ancora che un modo per affrancarsi dalla miseria, gli studi le paiono lo strumento di lotta privilegiato contro quell’impantanarsi femminile che le suscita pietà». È tuttavia ancora sicura di non avere una personalità ben delineata, «non c’è nessun rapporto tra la sua vita e la Storia, tuttavia le tracce di quest’ultima sono già strettamente collegate a sensazioni personali, il freddo grigiore di un mese di marzo – sciopero dei minatori -, l’umidità di un fine settimana di Pentecoste – la morte di Giovanni XXIII -, la frase di un amico Tra poco scoppia un’altra guerra mondiale – la crisi di Cuba».

Si ritrova madre prima di poter immaginare la decostruzione del meccanismo di riproduzione. Sposata e con un posto fisso, accoglie l’intelligenza di dire per la prima volta io, di sentirne il rintocco in un tempo che diventa abbacinante e che trasforma la repressione silenziosa in un’esaltazione collettiva. Le parole dei filosofi che si sono affrettati a interpretare il mondo non hanno capito che bisogna mutarlo. Rovesciare la dialettica e guardarla dal basso. «Il 1968 era il primo anno del mondo». Il Maggio francese arriva per Ernaux come un punto bruciante, da lì in poi agognato nella sua replica che non tornerà più. È tuttavia il momento più alto della nominazione del mondo, che continua a rimanere imperfetto rispetto tutto ciò che accade ma che si solleva potente come la rivoluzione a un soffio. La distanza tra passato e presente ora prende un’altra forma per lei, quella di una nuova e perversa domesticazione subita, in cui allo stridore di ciò che poteva significare una nascita inedita si affianca l’avvio di una narrazione degli anni Settanta all’insegna del rimosso, la lotta armata, le impiccagioni in carcere e quel desiderio costante di rivoluzione che solo a sperarla ancora «era diventato ignominioso». Compare un soggetto che deve misurarsi con la complessità di quel presente, dove «il tempo dei figli rimpiazzava il tempo dei morti».

Così Ernaux arriva a delle dense pagine sul passaggio alla cosiddetta crisi degli anni Ottanta, al cambio di segno cui sono state sottoposte le ideologie e alla «legge naturale» dell’impresa come possibilità di salvare il mondo. La complicanza della lingua ridotta a un vicolo cieco mentre «lo stupore si affievoliva». Quindi l’elezione di Mitterand e la rottura dopo le sue dichiarazioni di guerra contro Saddam, «saranno le armi a parlare», infine la difficoltà – anche nella prossemica -, spiegata in maniera magistrale, di confrontarsi con le proprie e i propri studenti rispetto un’esperienza di totalità impossibile da trasmettere e comunicare. Soprattutto la sua esperienza di donna, soprattutto i punti del già acquisito e sudato che puntellano un percorso di libertà, la contraccezione, l’aborto che usciva dalla clandestinità e una sessualità femminile urgente, inaggirabile.

Il lavoro letterario e politico svolto da Ernaux è talmente vasto che «la sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari, su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte».

La dissoluzione delle categorie per leggere il contemporaneo non chiude Gli anni che invece resta aperto alla discussione e al dibattito come un lungo, ispirato e imperdibile documento sia politico che culturale, incarnato nella voce di una donna che non smette di tendere un filo verso se stessa. A questo proposito, è interessante come la lontananza dal centro di una politica svuotata di significazione, si presenti come contrappunto al ricordo della propria madre – a cui, si dica per inciso, Annie Ernaux dedica un libro di notevole bellezza, Une femme (trad. it Una vita di donna, 1988). La mente va in particolare agli ultimi anni vissuti con la propria madre, malata di alzheimer. In quelle frasi materne dettate dalla malattia riemerge alla memoria il corpo «per sempre appannaggio di un solo essere al mondo, sua madre». Non i consigli ritornanti ma comuni a molte altre, non le consuetudini di accudimento ma quelle specifiche frasi alterate rispetto la realtà codificata che tuttavia aprivano una breccia tra le due. E nella mancanza di linearità, nell’abbandono di una esigenza spiegatizia a tutti i costi, la curvatura del tempo fa uno strano giro e consente ad Ernaux di abbracciare nuovamente il mondo, e molto di più di ciò che si riesce a scucire e restituire: «forse un giorno saranno le cose e la loro denominazione a essere scollegate e lei non potrà più nominare la realtà, ci sarà soltanto un reale-dicibile (…), salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più».

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Annie Ernaux, Gli anni, L’orma editore, pp. 266, euro 16

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(www.societadelleletterate.it, 07/2015)

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