31 Ottobre 2009
il manifesto

Gli anni ’70 di Diana Spiotta

Daniela Daniele

Incontro con la scrittrice italoamericana, che racconta il suo ultimo romanzo, Vivere un segreto, uscito per Mondadori. Concepito a ridosso dell’11 settembre, quando ogni velleità pacifista era destinata a restare frustrata, il libro è ambientato nel Midwest all’epoca di Reagan, e mette in scena la generazione dei reduci degli anni Settanta
In L. A. Girl, il libro con il quale si è fatta conoscere al pubblico italiano, Dana Spiotta raccontava il manierismo e le ipocrisie del mondo del cinema a partire da un ristorante alla moda dove, tra impeccabilità del catering e video porno, si consumava la decadenza di fine millennio. Alla sua seconda prova, l’autrice lascia il trionfo delle superfici hollywoodiane, dove spogliarsi davanti a una telecamera è più facile che mettere a nudo se stessi, per addentrarsi in contesti americani più periferici e irrapresentati, in quelle regioni della soggettività che sono esclusivo appannaggio della letteratura.
Eat the Document, uscito negli Stati Uniti nel 2006 e tradotto da Delfina Vezzoli per Mondadori col titolo Vivere un segreto, è la storia della generazione invisibile dei reduci degli anni Settanta, spersi nelle province del Midwest in una condizione di disperante isolamento, mentre continuano, a modo loro, una rivoluzione tradita. C’è Mary che, a dispetto delle amiche, si rifiuta di addossare al fidanzato la responsabilità dei suoi atti di sabotaggio, Nash che ospita nella sua libreria dell’usato le confuse riunioni di giovani cyberpunk coperti da borchie e tatuaggi, e la sofferta alienazione di Harry. I personaggi vengono ritratti negli anni reaganiani della crisi della controcultura, e danno vita a un libro che – come spiega l’autrice – è stato concepito dopo l’11 settembre, in un periodo frustrante anche per chi tentava di mantenere vivo l’impegno pacifista. Accanto al silenzio dei movimenti di protesta, il romanzo coglie, però, la curiosa pazienza con cui Jason, il figlio di Mary, ricompone – nel silenzio dell’assonnata cittadina del Midwest dove vive con la madre – la storia dei conflitti sociali in cui lei era stata coinvolta. Non è l’ideologia a ricollegarlo a quel turbolento passato, bensì la passione per vecchi vinili, pellicole graffiate e la musica di quegli anni perduti – il titolo originale del romanzo, Eat the Document, evoca il film underground tratto da una famosa tournée di Bob Dylan.
Spiotta lascia che sia la fascinosa obsolescenza di questi oggetti desueti a trasmettere la forza residuale di un’eredità politica e culturale che, anche nelle sue forme più estreme, riconduce alla storia del dissenso negli Stati Uniti. Non trovano giustificazione, invece, gli aspetti settari e intolleranti, quelli con cui per esempio tratteggia, in chiave satirica, la comune di «Mother Goose», dove – accanto a relazioni alternative – si sperimentano forme di separatismo radicale e di «franchising» della controcultura che, come aveva già prefigurato il trascendentalista Nathaniel Hawthorne nella Casa della gioia, in parte giustificano la disaffezione e il disincanto dei più giovani. «Sì, nel libro racconto delle comuni degli anni Settanta come parte di una lunga storia di utopie iniziata nella metà dell’Ottocento, utopie sulle quali il mio paese ha costruito la sua democrazia. Io non parteciperei mai a questi esperimenti comunitari: sono una italo-americana e la famiglia soddisfa ampiamente il mio bisogno di condivisione di spazi pubblici e privati; ma ne parlo perché vedo persistere il desiderio di costituire stili di vita e ambienti ispirati a una maggiore eguaglianza e progetti di economia no-profit ed eco-compatibile. Anch’io, per quanto resti legata a Los Angeles, dove ho lavorato anche come sceneggiatrice, a un certo punto mi sono trasferita in una città più piccola, lontana dai ritmi e dalle relazioni stressanti imposti dall’imperativo della produttività, alla ricerca ossessiva di scenari inediti e di novità assolute da consumare velocemente. Oggi, invece, l’America ha bisogno di riflettere sul suo passato, e sul modo in cui ha costruito, a partire da varie forme di dissenso, la sua democrazia. A Seattle, che è una città radicale molto importante nella mia formazione, ho fatto ricerche sulla storia perduta dei lavoratori, dei wobblies.
Nel romanzo lei si è ispirata a Katherine Ann Power, una attivista vicina alle Pantere nere che si è consegnata alla giustizia dopo più di vent’anni anni di clandestinità. Durante la campagna elettorale, Obama è stato accusato di aver collaborato a Chicago con militanti che nel ’68 erano stati coinvolti in atti di sabotaggio contro banche e multinazionali, costruendo una rete internazionalista che apparentemente offrì anche aiuti materili per aiutare Cuba a consolidare le condizioni della sua indipendenza. Lei che ne dice?
Obama ha potuto facilmente difendersi dall’accusa di connivenza con il terrorismo degli anni Settanta perché generazionalmente estraneo a quelle forme distruttive di attivismo, ma mi pare importante che sia stato il primo presidente ad avere saputo collaborare con un mondo underground erroneamente identificato con la violenza politica. E che ha dato, invece, un forte contributo al volontariato e a estendere il diritto all’istruzione. Credo che la storia dell’underground dovrebbe riportare alla luce questi aspetti positivi e solidali della nostra storia politica, perché fanno parte di un patrimonio che la sinistra non deve dimenticare, se non vuole rifare gli errori del passato. Oggi come ieri, questi movimenti ci parlano del Vietnam e di altre guerre sbagliate, e delle persone che hanno fatto di tutto per fermarle, pagando per questo il prezzo dell’isolamento e della morte sociale. Addossare a loro tutte le responsabilità politiche di una sconfitta culturale significa, per la sinistra, persistere nei propri limiti, e perpetuare una chiusura difensiva che arriva a forme di ostruzionismo moralista e a nuove forme di integralismo.
La critica del «New York Times» Michico Kakutami l’ha definita l’erede di DeLillo, un autore al quale lei spesso allude, fino a parafrasarlo, nella sua narrativa.
DeLillo resta per me un modello, è riuscito a resistere alla tendenza dell’industria culturale di trasformare gli scrittori in prodotti di consumo. Diversamente da Pynchon, fermamente determinato a non concedersi al di fuori della veste editoriale, DeLillo ha raggiunto un equilibrio invidiabile tra il bisogno di difendere la solitudine che gli è necessaria per scrivere e quello di comunicare in pubblico le proprie idee, mostrando che, anche in una fase di forte mercificazione della cultura, lo scrittore americano può continuare ad esprimere i suoi dubbi sul presente e sui limiti della politica, senza lasciarsi sommergere dalla vulgata.
Nel romanzo si avverte la difficoltà, da parte della sinistra, di trasmettere i propri valori alle nuove generazioni: il figlio della militante vicina alle Black Panthers non pare condividere l’estremismo della madre, per esempio. E mi pare che questa mancata condivisione possa anche funzionare come un commento sulla diversa natura dei movimenti odierni, che mostrano meno tolleranza verso la violenza e più dimestichezza con le tecnologie.
I figli dei militanti degli anni Sessanta riscoprono la storia dei loro padri su Internet e attraverso i prodotti della controcultura. Nel romanzo, Jason ricostruisce il vero nome della madre grazie a un film underground che la ritrae sorridente durante un concerto. È come se le nuove generazioni, tecnicamente molto avvertite, recuperassero i valori del passato attraverso il culto feticista di oggetti e tecniche spesso oscuri e rudimentali.
Nel romanzo, la disgiunzione del punto di vista della madre da quello del figlio sottolinea la loro appartenenza a due diverse stagioni politiche, come se a legarli fosse una dialettica sotterranea, segnata da una distanza ideologica e culturale.
Il mio intento era quello di raccontare l’inevitabile silenzio che divide una madre dal proprio figlio, dal momento che, per forza di cose, gli anni che non hanno condiviso automaticamente escludono il figlio da una parte consistente della vita della madre, spesso destinata a rimanere un segreto per lui. Nel racconto, il silenzio tra i due è accentuato dal fatto che gli scenari a cui il figlio è anagraficamente estraneo coincidono con gli anni vissuti in clandestinità dalla madre, per cui la dimensione privata degli affetti diventa per lei uno spazio che paradossalmente l’aiuta ad affrancarsi dagli errori del passato. È come se la maternità la proteggesse dalla parte di sé che non si esprime nel rapporto col figlio, accentuando un silenzio di cui, però, alla fine, lui la incolperà.

Print Friendly, PDF & Email