28 Agosto 2021
Io Donna - Corriere della Sera

Goliarda Sapienza, la politica della gioia

di Stefania Bonacina


Cresciuta in una famiglia protagonista delle lotte sociali, trovò il modo di finire in carcere per “rinascere”. Legatissima alla madre e molto libera, fu l’outsider della letteratura italiana, in anticipo sui tempi. A 25 anni dalla morte è ora di riscoprirla


Il 5 ottobre 1980 le pagine di cronaca romana riportano la notizia dell’arresto di un’elegante signora ultracinquantenne, tale Goliarda Sapienza. La scrittrice ed ex attrice di qualche fama viene definita, impropriamente, moglie di un regista famoso e accusata di ricettazione di preziosi. La sua fedina penale è immacolata, e anzi ha combattuto con i gradi di sottotenente durante la Resistenza. Del suo reato dirà, anni dopo: «Mi ha preso una corda pazza, come capita a noi siciliani». Il furto di gioielli ai danni di un’amica, perpetrato mentre era sua ospite in una villa ai Parioli, fa acqua da tutte le parti e, quando le fanno notare che sul documento falso ha lasciato una traccia evidente, il nome della protagonista di un suo romanzo, ammette: «Un po’ volevo andarci, in carcere. Mi ero troppo imborghesita, infragilita. Troppo lavoro intellettuale, troppo cavilli […] A Rebibbia sono rinata […] per alcuni aspetti ho rivissuto la mia infanzia».

La cultura viene prima del pane

Un’infanzia tutt’altro che ordinaria, a cominciare dal palcoscenico che l’accoglie. Goliarda nasce il 10 maggio 1924 in una Catania fiera e brutale, quella dei vicoli malfamati di San Berillo. La madre, Maria Giudice, è una figura di spicco del sindacalismo lombardo. Entra ed esce di continuo dal carcere a causa della sua attività politica, dirige riviste e, prima donna in Italia, una Camera di Commercio. A quarant’anni viene inviata dal Partito Socialista Italiano in Sicilia per organizzare la lotta dei braccianti. Viaggia con i sette figli avuti more uxorio dall’anarchico Carlo Civardi, morto sul fronte della grande guerra. A Palermo conosce l’avvocato e fine costituzionalista Giuseppe Sapienza, vedovo con tre figli (di cui uno morirà prima della nascita di Goliarda). Entrambi non più giovanissimi, uniscono passione, impegno civile e figliolanza per dare vita a una famiglia più che allargata. Goliarda, la loro unica figlia naturale, sarà l’ultima di dieci fratelli, il più giovane dei quali è maggiore di lei di 16 anni. Della sua formazione anarco-socialista, Iuzza, come la chiamano in famiglia, racconterà che i suoi genitori, oltre a essere comprensibilmente più interessati al bene comune che a crescere una neonata, le avevano tolto Dio – «il che non è poco» – offrendole in cambio la cultura («veniva prima del pane») e il loro marxismo primitivo. Viene ritirata dalla scuola pubblica fascista affinché non diventi una «piccola cretina italiana»; saranno i fratelli maggiori a insegnarle musica, arte, storia, grammatica. Il padre la coinvolge nella sua passione per il teatro.

La previsione che si autoavvera

Nel secondo dopoguerra, Goliarda calca i palcoscenici di Roma, città dove si era trasferita con la madre a diciassette anni per studiare recitazione alla Silvio D’Amico, e si fa notare come interprete di personaggi pirandelliani. Un giovanissimo Citto Maselli, osservandola sera dopo sera dal fondo della platea, s’innamora della sua gestualità, elegante e ferina; il sodalizio amoroso e intellettuale con il famoso regista durerà diciott’anni. Per tutti gli anni ’50, Goliarda frequenta i neorealisti, ottiene vari ruoli a Cinecittà (amica di Visconti, reciterà in Senso), collabora alla stesura di sceneggiature e alla produzione di documentari e progetti cinematografici firmati dal suo compagno, con cui non si sposerà mai. Ama definirsi una “cinematografara” e sostiene di aver imparato a scrivere dal grande schermo per quanto sottolinei, ogni volta che ne ha l’occasione, che non avrebbe mai voluto fare la scrittrice: «Lo consideravo una follia. Da piccola vedevo girare per casa questi scrittori che sono sui libri di testo; facevano tutti la fame. E infatti, questo mi è successo!».

La dedizione alla scrittura grava sulla sua precaria condizione economica al punto da spingerla, a settant’anni compiuti, ad accettare d’insegnare recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia, su invito di Lina Wertmüller.

La perfetta solitudine

Ancestrale, la sua prima raccolta di poesie nasce di getto nel 1953, nel tentativo di superare il lutto per la perdita dell’amatissima madre. Nel 1967 sfiora il Premio Strega con Lettera Aperta, il suo primo romanzo, autobiografico, che racconta quanto le è accaduto tra le due pubblicazioni; la separazione da Citto Maselli, due tentativi di suicidio e un lungo percorso psicoanalitico per fare finalmente i conti con il sentimento di abbandono instillatole dalla sua “ingombrante” madre. Chiuso questo doloroso capitolo, si regala una parentesi di pura gioia: lei, che avrebbe voluto innumerevoli figli, ma non ne può avere per una malformazione congenita, partorisce il personaggio femminile più carnale, indomito e astuto della letteratura italiana del ventesimo secolo e lo battezza, con sprezzante ironia, Modesta. Far crescere la sua protagonista le impegna la vita, maniacalmente e quotidianamente, dal 1968 al 1976. Un periodo di “perfetta e felicissima solitudine” intervallato solo dalle tante serate conviviali con gli amici e, come racconterà con esilarante schiettezza, da due fallimentari tentativi di praticare il sesso libero, su insistenza delle amiche femministe. Si definisce «un organismo pre-industriale, che non trae giovamento da una carnalità priva d’amore». Quando nel 1975 si accorge di essersi innamorata di Angelo Pellegrino, un professore di lettere di 22 anni più giovane, scoppia in lacrime: «Temevo di non riuscire più a finire il mio romanzo».

Trent’anni senza editore

Pellegrino, che sposerà alcuni anni dopo, sarà invece la chiave per traghettare la sua opera nel canone letterario del Novecento. Dopo la morte improvvisa di Goliarda il 30 agosto del 1996, il marito decide di far stampare a sue spese un migliaio di copie de L’arte della Gioia, un romanzo in cerca di un editore da più di vent’anni perché giudicato scomodo e complesso, stilisticamente barocco e sperimentale e, soprattutto, con una protagonista che ha il vizio, inviso a ogni parte politica e culturale, dell’assoluta libertà. Il romanzo viene notato da un’agente letteraria tedesca che lo descrive a un’editrice francese come «un po’ bizzarro, 600 pagine che costeranno una fortuna in traduzione […] una meraviglia». Mentre in Italia gli editori continuano a ignorala, la storia di Modesta trionfa in Francia e il suo tardivo successo oltralpe convince Einaudi a dare alle stampe la prima edizione de L’arte della gioia a trent’anni dalla sua stesura.

Goliarda era «troppo lucida, troppo tagliente, troppo in anticipo sui tempi e su noi altri» confesserà un’amica letterata, ricordando anche quanto la scrittrice catanese amasse annotare sul suo taccuino le storie che si faceva raccontare da ogni persona che incontrava, abile nel sollecitare loro quasi una confessione. A Gaeta, dove trascorreva lunghi soggiorni estivi, e dove è seppellita, si sedeva spesso ai tavolini di un bar dove scriveva e sorrideva tra l’andirivieni della gente. «Quando rideva», la ritrae Guttuso, «la sua bocca aveva l’allegrezza di una fetta d’anguria».

Il legame, anche letterario, con Rebibbia

A Goliarda Sapienza è intitolato il premio letterario Racconti dal Carcere (raccontidalcarcere.it) che promuove gli scritti di detenuti italiani e stranieri nelle nostre carceri. «Il proprio Paese si conosce solo frequentandone le carceri, gli ospedali ed il manicomio» le ripeteva spesso la madre, socialista. Quando Goliarda frequenta L’università di Rebibbia, titolo che riassume la sua esperienza del carcere, ribadirà spesso come quel “bagno di verità” l’abbia aiutata a riscoprire un senso di comunità, di sorellanza e persino un linguaggio più aderente alla realtà. Un senso di appartenenza che, come accade alle due protagoniste de Le certezze del dubbio, l’altro suo romanzo-testimonianza della vita in prigione, può venire meno quando si viene riammessi nella società libera ma spesso più feroce, competitiva e respingente di una cella.


(Io Donna – Corriere della Sera, 28 agosto 2021)

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