15 Gennaio 2011
la Repubblica

Hilary Mantel

Leonetta Bentivoglio

La Storia è un gioco, una merenda, una follia, una questione di frenesie sessuali, un’ansia di dominio, il complotto di una casta famelica. Nel cosmo feroce dei Tudor la Storia è cosa cinica e madida di sangue, ed è in tale perfido scenario che si è immersa l’inglese Hilary Mantel per costruire Wolf Hall, ritratto sterminato e tumultuoso del primo ministro di Enrico VIII, Thomas Cromwell. Pervaso da echi e profumi di Shakespeare, e ricco di sfondi dettagliati sull’ esistenza quotidiana alla corte dei Tudor, questo libro d’ impianto epico e di mole impressionante punta a ridisegnare, al di là degli stereotipi, il volto dell’ artefice più decisivo della Riforma: fu Cromwell l’architetto geniale della rottura tra Enrico VIII e il Papa. Accolto da un notevole successo in Inghilterra, dove ha meritato riconoscimenti prestigiosi (tra cui il Man Booker Prize 2009), il romanzo esce ora in Italia da Fazi. Viaggiando tra cronaca e fiction, l’autrice sfida l’ alone di negatività che ha circondato il suo eroe, restituendoci l’ immagine di un politico colto, audace e profetico. Il respiro teatrale e lo stile serrato della Mantel, nata nel 1952 e molto fertile come scrittrice, a dispetto dei suoi problemi di salute (tiroidismo ed endometriosi la costringono a un’immobilità parziale), imprimono al racconto la vividezza dell’ attualità, mostrando come i mali del Cinquecento inglese – assenza di mobilità sociale, fanatismi religiosi, lotte tra individuo, Stato e Chiesa – non siano affatto estirpati dal presente. Come ha incontrato la figura di Cromwell? «Ho studiato in una scuola cattolica, che certo non mi garantiva una visione obiettiva del personaggio. Ma fin da allora Cromwell mi parve attraente, se non altro perché dibattuto e misterioso. A ventidue anni scrissi un romanzo sulla Rivoluzione Francese, capendo di avere una vocazione letteraria di tipo storico. In seguito ripensai spesso a Cromwell, sul quale circolavano soltanto commenti negativi, il che mi stimolava molto a indagare su di lui. Tuttavia ho deciso di affrontarlo solo qualche anno fa, e mi sono resa conto che era stato saggio aspettare: ci vuole esperienza per esplorare un uomo tanto conscio del suo tempo e acuto nel percepire la politica come arte del possibile». Quali sono state le sue fonti? «La vita politica di Cromwell è ben documentata, ma quella privata è quasi ignota. Io volevo cogliere l’uomo: scoprire cosa possedeva, che faceva quando non lavorava, cosa indossava. I suoi libri contabili domestici dicono molto su di lui, e anche certi resoconti sul suo operato, come quelli dell’ ambasciatore spagnolo, utili in quanto provenienti da qualcuno di malevolo e sagace. Inoltre ho letto tutta la sua corrispondenza». Cosa l’ha più colpita del personaggio? «La sua capacità di raggiungere l’apice del potere venendo dal nulla, per di più in un contesto rigido e gerarchico. Aveva un’indole dinamica, un formidabile coraggio e uno spiccato senso dell’ umorismo. Ed era un grande mecenate delle arti». Il nucleo del romanzo è il potere. «Wolf Hall descrive un realista scevro da illusioni sul senso e gli scopi della politica, ma anche radicato in un’epoca di teorie, in cui aleggia lo spirito di Machiavelli e sono in molti a riflettere con creatività sulla conquista del potere, ponendosi interrogativi nuovi: a chi compete la legittimazione del governo? Agli uomini o a Dio? Mentre il potere religioso è messo in discussione, l’aristocrazia s’indebolisce in tutta Europa, e i governanti si affrancano da consiglieri nobili per puntare sul talento di persone di umili origini, come Cromwell, che dal mettersi al servizio di un potente traggono la loro ragione d’ essere». Quali sono le regole di una buona fiction storica? «Adattare il romanzo ai fatti e non viceversa: difficile migliorare la realtà, anche quando è sconveniente o non sensazionale. E rammentare che la verità dipende dalla propria prospettiva. Io non sono mai imparziale: nel mio romanzo giovanile ero schierata con i rivoluzionari e in Wolf Hall sto dalla parte di Cromwell». Spicca nel libro la forza delle figure femminili: Caterina d’ Aragona, Anna Bolena e Jane Seymour, che diventerà la terza moglie del sovrano. «Tutto il romanzo si nutre di una domanda: chi può dare a Enrico un erede? Per questo il corpo femminile è il fulcro della storia e il motore del processo politico che condurrà alla Riforma. Gli uomini sono impotenti poiché incapaci di concepire il figlio tanto desiderato. Le convenzioni storiche tendono a confinare quelle tre donne in ruoli archetipici: la mater dolorosa Caterina, la seduttrice Anna Bolena, l’insignificante e schiva Jane. Io invece le vedo in evoluzione continua e non esprimo giudizi categorici. Lascio zone di ambiguità, luci ed ombre». La sua scrittura osserva senza giudicare, escludendo retoriche dei sentimenti. E i personaggi sembrano agire come su un palcoscenico. «L’approccio è simile a quello di una sceneggiatura. Mi affido ad avvenimenti esterni per fare luce sui moti interni. Non spiego i personaggi: piuttosto li ascolto e li mostro in movimento. Il che, al di là delle dimensioni del romanzo, ne rende agile lo sviluppo. La trama avanza nei dialoghi e nelle azioni, senza divagare, ed è come se fosse seguita da una macchina da presa sulla spalla di Cromwell, il quale ha sempre il controllo del punto di vista narrativo». –

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