6 Novembre 2010
LA STAMPA

I Rivoluzionari senza gloria

Pent Sergio

Noi credevamo sorprende innanzitutto per la costruzione narrativa, moderna, scaltra e ben calibrata in un lungo percorso a ritroso nella storia mancata di certi piccoli eroi del Risorgimento. Nella Torino ostile – almeno agli occhi del vecchio protagonista morente – del 1883, il calabrese Domenico Lopresti ripercorre le sue memorie di rivoluzionario fallito, da un capo all’altro di quell’Italia che – egli per primo Io intuisce – non sarà mai un unico ceppo di luoghi comuni condivisi. Repubblicano un po’ anarchico, ostile ai Borboni ma anche a certe pseudo-rivolte ideologiche mai concretate – dalla Carboneria a un Mazzini più ideologo velleitario che solido manovratore politico -, Lopresti è figlio di un Paese lacero, ignorante e caciaroso ma pronto a offrire le terga a chiunque lo invada con una divisa sgargiante. Impoverito, vinto, padre già anziano di due figli che saranno adulti nel Novecento, Lopresti vive i suoi ultimi giorni torinesi – una Torino vista in tutti i suoi difetti provinciali d’antan – con il rimpianto di non aver portato a termine una missione epocale, quella di dare vita a un’Italia libera, moderna e repubblicana. La monarchia piemontese ha semplicemente sostituito quella borbonica, e da queste amare considerazioni prende il via il viaggio a ritroso di Lopresti nelle sue memorie rivoluzionarie. Dagli anni di carcere duro a Procida e Montefusco fino alla lunga rincorsa per raggiungere, da Roma, quel mitico Garibaldi che sta risalendo la penisola con i suoi eroici Mille, il vento di un’Italia nuova soffia sulle speranze dell’illuso Lopresti, che si scontra invece con una volontà popolare tutta da definire, rendendosi conto che non basta creare, credere, combattere, per smuovere “un costume avvilito, incapace di mutare”.
L’eroe mancato della Banti attraversa un’epoca di determinanti transizioni giungendo alla conclusione che ogni tentativo di unificare l’Italia sia destinato a rimanere un’utopia. La dolente epopea del progressista calabrese diventa l’occasione mancata della Storia, in un romanzo ancora oggi – questo il suo pregio in tempi di becere ambizioni secesioniste – scomodo e attuale. I piemontesi si appoggiano alla camorra per conquistare il Sud, le disparità sociali annegano nella consapevolezza di non essere riusciti a diffondere una vera voglia di rinnovamento, in un Paese dove è più facile cambiare padrone che costruirsi una nobile identità collettiva. Un Risorgimento, quello della Banti, che ancora oggi continua a tentare di ricucire gli strappi, in questa Italia da reality in cui annaspiamo, con tante autostrade ma senza più indicazioni e mete comuni.

Print Friendly, PDF & Email