23 Maggio 2009
il manifesto

I silenzi della Cina

Tommaso Pincio

Secondo un vecchio aforisma cinese la più grande delle forme è quella
che non ha confini, e il rumore più intenso è quello che non emette
alcun suono. Ne potrebbe discendere che la storia più grande è quella
che non ha parole per essere raccontata. Ed è proprio una grande
storia, un epico romanzo di sublime fattura sui tormentati eventi
della Cina del secolo scorso, quella narrata da Zhang Jie in Senza parole
(Salani, traduzione di Maria Gottardo e Monica Morzenti, pp. 315,
euro 16,80). Al centro una figura di donna, una famosa scrittrice di nome
WuWei, che dopo una giovinezza appassionata ed esuberante diventa la
secondamoglie di Hu Bingchen, un funzionario di partito più vecchio
di lei costantemente preoccupato di barcamenarsi nelle intricate lotte
di potere del periodo maoista. Dopo anni di amore, Wu Wei sarà costretta
ad ammettere che «anche lui, come gli altri uomini, è un calcolatore».
In nome delle apparenze, infatti, Hu Bingchen penserà bene di non
restare accanto a un’eccentrica intellettuale sospettata di essere
borghese e tornerà dalla prima moglie, abbandonando Wu Wei a una
precoce follia senile.
Il romanzo, – come spiega l’autrice in questi giorni a Venezia per il
festival «Incroci di civiltà» e ospite dell’Istituto Confucio – non è
una storia d’amore, bensì di destini.
Nata Pechino nel 1937, Zhang Jie sembra non aver perso nulla
dell’elegante bellezza della gioventù. Uno sguardo intelligente e
luminoso, zigomi alti, una grazia naturale neimodi. Dopo un’infanzia
difficile, si è laureata in economia e ha lavorato in ambito
governativo fino al 1969, quando, in piena Rivoluzione Culturale, fu
spedita in esilio forzato in campagna. Più volte candidata al Nobel,
Zhang Jie è oggi la scrittrice più apprezzata in Cina.
Senza parole procede per continui scarti, andando avanti e indietro
nel tempo, lungo quattro generazioni. Incontriamo così la figlia
illegittima di Wu Wei e sua madre Ye Lianzi, a sua volta nata da Mohe
morta dissanguata di parto dopo la settima gravidanza. Attorno a loro
una miriade di altri personaggi, uomini che, a differenza delle
donne, si mostrano spesso più interessati al potere, al gioco, alla politica
che non alla dimensione più autentica e spirituale della vita. «Ci
sono cose così profonde che non possono essere dette: è questo il senso
del titolo. Ho sentito che non avevo la forza né la possibilità di
esprimere il dolore di tutte queste esistenze, di queste vite. Le
parole sono inadeguate a rendere conto dell’epica tragedia della Cina
del ventesimo secolo. Nessuno scrittore può dire il dolore del mondo:
per questo il mio libro è senza parole».

Il suo romanzo è il più premiato dei romanzi contemporanei del suo
paese. È stato spesso accostato a capolavori come Cent’anni di
solitudine e Il dottor Zivago.
Ci vogliono dieci anni per forgiare una spada perfetta, dice un
proverbio cinese. Lei ne ha impiegati due di più per portare a
compimento Senza parole.

Sì, ci sono voluti dodici anni di ricerche e scrittura. Sono stata
più volte a Yan’an viaggiando in camion insieme a mucche, capre e
galline. Ho trovato la figlia di uno degli uomini dei servizi segreti
che negli anni Quaranta si occupavano delle presunte spie presenti
nel partito. Parlando con lei sono venuta a conoscenza di storie che
all’epoca si ignoravano. In quel periodo tutti andavano a Yan’an
convinti che il comunismo avrebbe salvato ilmondo e dissidenti erano
considerati antirivoluzionari. Ho visitato molti posti e ho raccolto
un’enorme quantità di materiale, pile di carte da cui ho ricavato
quattro volumi che in seguito ho pensato di ridurre a tre quando mia
figlia mi ha detto che al giorno d’oggi nessuno leggerebbe libri
tanto voluminosi. Alla fine, il lavoro di studio e ricerca mi ha talmente
stremato che ho bruciato tutte queste carte.

E cosa può dirmi della stesura, è stato altrettanto faticosa? La sua
scrittura sembra tesa a cercare un equilibrio ideale tra la sintetica
levità della poesia e n’introspezione psicologica di stampo più
romanzesco.

Anche la stesura ha richiesto molto, perché in vari passaggi del
libro ho cercato di giungere a un certo lirismo, a una semplicità
della frase che impone impegno e fatica.
Quando mi chiedono di esporre la storia di Senza parole mi irrito
perché per me è difficile dire che storia si tratti. Ho tentato di
unire l’indagine della vita interiore con la poesia e trovo banalizzante concentrarsi sulla trama. Ho riflettuto sulla posizione di ogni singola parola e ringrazio le traduttrici italiane che si sono adoperate magnificamente per restituire nella
vostra lingua questi sforzi. Quanto alla struttura narrativa, ci
tengo a dire che non preparomai un piano di lavoro. I fatti da raccontare
sono tutti nella mia testa. Forse sono un po’ sciocca, perché ho una
pessima memoria. Una volta mi è successo di gettare una grossa somma
di denaro che mi ero dimenticata di avere messo all’interno di un
vecchio giornale. I dettagli dei miei romanzi, però, li ricordo tutti perfettamente.

Salta evidente una forte distinzione tra i personaggi maschili,
sempre preoccupati di salvare la faccia e quasi mai autentici, e
quelli femminili che invece rifiutano di piegarsi alle menzogne dettate
dalla convenienza.

Le donne che descrivo sono assai particolari. In realtà, non tutte le
donne sono così. Forse i personaggi cui ho dato vita sono
l’incarnazione della mia speranza riguardo le donne.

Mi pare di riscontrare un tema simile anche nel suo racconto
d’esordio, L’amore non deve essere dimenticato, la cui voce narrante
è una donna che sfida le convenzioni e decide di non sposarsi a dispetto
della disapprovazione sociale, perché memore delle sofferenze di sua
madre unita a un uomo che non l’amava.

A mio avviso si tratta di una figura diversa, la sua scelta non era
altrettanto forte. E in ogni caso, come ha scritto un giovane critico,
i miei romanzi sono assai diversi e io confido che sia davvero così
perché odio gli scrittori che ripetono se stessi e mantengono uno stile
costante, riconoscibile fin dalla prima frase. Per melo stile è come
giocare a nascondino: se ti nascondi sempre nello stesso posto è troppo
facile trovarti. Può darsi che pecchi di presunzione, ma mi sforzo di
fare cose diverse. Ho scritto romanzi di rottura prima ancora
dell’avanguardia emersa negli anni Ottanta.

La prima pubblicazione di una sua opera risale però soltanto alla
fine del decennio precedente, quando lei aveva già compiuto
quarant’anni. C’è una ragione particolare per questo esordio un poco tardivo?

Prima della morte di Mao era possibile scrivere solo rispettando i
suoi dettami letterari. Si doveva raccontare del lavoro nelle campagne,
adottare uno stile realista, mentre io ero interessata a un diverso
genere di introspezione psicologica che all’epoca era precluso.
L’amore non deve essere dimenticato uscì nel 1978. Alcuni lo criticarono
perché vi lessero una difesa dell’amore fuori del matrimonio. Tuttavia il
racconto divenne molto popolare tra i giovani e vinse un prestigioso
premio nazionale.

In Senza parole, il lento avanzamento verso di Wu Wei verso la follia
viene messo in relazione con la pittura, in particolare dal marito, il
quale sostiene che «l’improvviso insorgere della passione per la
pittura nel mezzo della vita di una persona è segno di insanità
mentale». So che pure in un suo recente romanzo, Dipinto di Z, non
ancora tradotto in italiano, si parla di un quadro che fa da perno alle
vicissitudini della Cina.

Mi piace dipingere; paesaggi specialmente. Quanto al romanzo cui fa
riferimento, il punto da cui sono partita è la Storia. Io non credo
nella Storia. Non mi fido di essa, perché la Storia è in primo luogo
dei vincitori, e in seconda istanza di chi la scrive. La Storia implica
sempre e necessariamente un punto di vista, un’estetica, un giudizio,
una fede, un qualche tornaconto che finisce col determinare la versione
dei fatti. Da giovane ho dovuto leggere molto Marx e la principale cosa
che ho assorbito del suo pensiero è che bisogna dubitare di tutto.
Mentre ero impegnata nelle ricerche per Senza parole mi sono resa conto
che anche su eventi recenti i racconti divergono e non c’è possibilità
di accordarsi in merito ai vari dettagli. Ovviamente nemmeno io posso
ritenermi nella posizione di dare un giudizio obiettivo, ma quantomeno
posso mettere in guardia il lettore, fargli guardare la Storia da più
punti di vista. Nel Dipinto di Z racconto di un’imperatrice della
dinastia Jin che è stata aspramente criticata. In effetti non si può
negare che si sia sporcata le mani, ma il potere è sempre sporco e lei
non era peggiore di tanti altri. Io stessa mi sarei comportata come lei
qualora mi fossi trovata al suo posto. Fu costretta dal destino a fare
certe scelte e viene da domandarsi perché ad altri imperatori maschi,
certo non migliori di lei, non sia stato riservato un trattamento
altrettanto severo.

Forse perché era donna.
È la risposta che mi sono data anch’io, ma non mi ritengo una
scrittrice femminista. Sotto questo aspetto vengo talvolta fraintesa.
Non credo sia bene che noi donne si perda troppo tempo a lamentarci
perché gli uomini ci trattano male. Io voglio andare avanti con le mie
forze, non mi piace l’idea che siano gli altri a darmi la parità.
Naturalmente, pretendo rispetto. Ma vorrei tornare sul tema della
Storia, che è l’argomento centrale anche del mio nuovo romanzo, la cui
uscita in Cina è prevista per il mese prossimo. Si intitola Le anime
sono fatte per fluttuare e vi compare un personaggio effettivamente
esistito ma al quale ho dato un nome fittizio. Si tratta di un
missionario a suo tempo accusato di aver distrutto la cultura Maya
perché bruciò alcuni libri. In realtà, la cultura Maya sopravvive
grazie a quel che resta delle sue architetture. Mentre i testi in
questione, di produzione azteca, furono dati in parte alle fiamme
perché considerati barbari e insopportabili per la morale cattolica in
quanto vi comparivano scene di sesso con animali. Accusare questo
missionario di avere distrutto un’intera cultura è perciò ingiusto.

Un romanzo lontano dal suo paese, dunque.
È ambientato in un’isola, dove però si incontrano due cinesi, due
viaggiatori, persone opposte fra loro. Da un lato c’è una donna in
cerca del proprio patrigno che vuole uccidere perché in passato ha
avuto una relazione con lui. Scavando al fondo del suo animo, scopriamo
comunque che la donna è ancora attratta dal suo patrigno e pertanto si
ritrova combattuta tra passione amorosa e morale. L’altro viaggiatore è
un matematico impegnato nello studio dei numeri Maya, nella fattispecie
di un calcolo che dovrebbe fissare, seppure erroneamente, la fine del
mondo. Se la donna è rosa dalla vendetta e dai suoi sentimenti
contrastati, l’uomo è invece immerso nella astratta serenità dei
numeri. Sono come due mondi, uno il contrario dell’altro, la notte e il
giorno, due modi di vedere le cose, di raccontarle. Due storie, in pratica.

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