di Marisa Bulgheroni
New York, 1959
(Il Mondo, 22 dicembre 1959)
C’è una fotografia di Carson McCullers fatta dodici anni fa da Cartier-Bresson: con la frangetta, le calze di lana bianca al ginocchio, le scarpe basse, una sigaretta in mano, il viso chiuso in una interrogazione che è anche una sfida, la scrittrice, a trent’anni, fa pensare alle adolescenti dei suoi libri, dure e sensibili. Come loro è diversa dalle infinite ragazze americane pettinate e vestite allo stesso modo; basta il suo fastidio per il fotografo, la sua impazienza di andarsene dallo sfondo di bianchi e neri – il balcone di legno della casa alle sue spalle, l’ombra del portico – per distruggere ogni sospetto di artificio.
A quel tempo Carson McCullers viveva già a Nyack, presso New York, ma spiritualmente non si era allontanata dal Sud: durava intorno a lei la fama di fanciulla prodigio che aveva raggiunto all’improvviso col suo primo romanzo, Il cuore è un cacciatore solitario. In questa bizzarra storia di un sordomuto, di una ragazzina che sogna di studiare musica, di un barista, di un anarchico, di un medico negro, la giovane scrittrice aveva voluto esprimere la sua precoce coscienza della solitudine umana. Ogni personaggio è solo nella piccola città meridionale, dove pure è impossibile non incontrarsi, solo dentro il proprio cuore, solo della solitudine delle stelle che appaiono vicine e sono infinitamente lontane.
Oggi la ragazza di Cartier-Bresson è una donna stanca e ammalata che vive chiusa nella casa di Nyack, lavorando a un romanzo cominciato qualche anno fa, sul tema della morte, aspettando i ritorni quotidiani della sorella che lavora a New York. Da quando suo marito è morto, tragicamente, non vede quasi nessuno. La governante negra la difende con tanto calore dagli estranei che chi cerca di vederla si scoraggia. La sua voce stessa, al telefono, può essere dura e lontana, come se parlasse da oltre una porta chiusa. Quando riuscii a convincerla che mi sarei trattenuta soltanto la mezz’ora tra l’arrivo e la partenza dell’autobus, mi pareva di essere già stata sconfitta da quella voce, che non valesse neppure la pena di andare.
Era una di quelle giornate piovose in cui gli orizzonti di una grande città si chiudono, e Nyack, che pure è a un’ora da New York, si perdeva nella distanza: la immaginavo come una grigia cittadina quasi industriale e non come un grande giardino stillante di pioggia sotto un cielo chiaro. La casa, nel verde dei grandi alberi piumati, aveva la grazia nordica del legno verniciato, del tetto spiovente, delle finestre a piccoli riquadri, ma ispirava anche un vago senso di abbandono, come le case del Sud.
La governante negra, con il suo sorriso infinitamente comprensivo e la sua segreta allegria, non poteva non essere del Sud. E dentro la casa c’era il silenzio, il grande silenzio delle scale di quercia, dei mobili antichi, delle porcellane preziose, delle tende di mussola, il silenzio magico delle vere case, fatte di lunghe accumulazioni di pensieri, di ore vuote, di voci familiari, di orologi che battono all’improvviso. Carson McCullers indossava con noncuranza una vestaglia di seta grigia; nel suo viso sciupato i grandi occhi castani erano fieramente giovani. Si scusò con calore di essere molto stanca, aveva riposato qualche ora dopo aver finito un articolo per Esquire, che le era costato una grande fatica. Sedemmo di fronte alla finestra; la pioggia rigava i vetri appannati con una furia primaverile. Carson McCullers disse: «Non mi intervisti, la prego, non posso sopportare questo genere di cose, e odio rispondere alle domande». La governante ci servì il caffè come in un salotto dell’Ottocento, con ricami, argento, lieve tintinnio. Non avrei neppure saputo rivolgerle domande che non mi suonassero, in quell’atmosfera, inutili, non c’erano tecniche possibili per rompere l’esclusività del suo isolamento. Così sedemmo in silenzio. Sapevo che Carson McCullers era una persona difficile, ma in un paese come l’America, dove l’educazione alla cordialità è nell’aria, anche se qualche volta tutto finisce lì, quel silenzio era soltanto singolare, come essere capitati in un paesaggio nuovo. Poi parlammo affrettatamente; mi raccontò delle sue estati nella Georgia, dove è nata, di come le occorsero due anni per scrivere l’inizio del romanzo breve Invito di nozze che si svolge durante una di quelle estati, di come ora scrivere le costi fatica, con un braccio paralizzato, non può lavorare mai più di due o tre ore al giorno. Mentre parlava i suoi occhi si accendevano di una bella luce scura per spegnersi subito se le parole la riportavano dentro di sé: il suo viso, allora, si chiudeva, come se la stanchezza, il fastidio che esistano gli altri la inaridissero. Quel viso aveva ceduto da tempo al dolore, alla paura della morte, all’angoscia della solitudine; l’amore per la poesia resisteva soltanto negli occhi.
Il nuovo silenzio fu più lieve, come se la distanza iniziale fosse diminuita. D’improvviso mi chiese che cosa facevo io veramente in America, se non avevo nostalgia di casa. Il pendolo suonò le sei, l’autobus sarebbe ripartito tra pochi minuti, e ora si sentiva l’ombra invadere gli angoli della grande casa, con il primo freddo della sera. Ci alzammo. Sulla porta mi abbracciò e mi baciò sulle guance, con un’ansiosa gentilezza. Mi augurò buon viaggio con la voce di chi vede un viaggio anche nello svoltare l’angolo della propria casa.
Non avevamo quasi parlato, eppure mi pareva di aver capito tutto quello che da lontano ero stata curiosa di sapere. Se ci fosse un limite di artificio nei suoi libri, se l’estrema grazia dello stile non fosse un gioco raffinato. Invece la sua vita, in quello strano angolo di Sud vicino a New York, era nuda: il silenzio della casa e il suo chiudevano un universo poetico più che un mondo romanzesco. Era un poco come aver fatto visita a Emily Dickinson vestita di bianco nel suo giardino di Amherst. Donne capaci, a questo modo, di solitudine, di infelicità senza essere patetiche, non sembrano appartenere alla stessa razza delle garrule studentesse, delle solerti frequentatrici dei circoli femminili, delle attive matriarche la cui socialità si esprime con violenza, nel trucco come nei fiori sul cappello. Pure – pensavo, mentre l’autobus correva nel tramonto verso New York, verso le ore meccaniche – le donne come Carson McCullers non sono forse che l’altra faccia della femminilità americana, la forza dei pionieri sottratta volontariamente alla società, ostinatamente conservata per la poesia.
Di Carson McCullers in libreria:
Il cuore è un cacciatore solitario, Einaudi
Riflessi in un occhio d’oro, Einaudi
La ballata del caffè triste, Einaudi