30 Dicembre 2022
Corriere della Sera

Il coraggio di sperimentare. L’arte indomita delle donne

di Vincenzo Trione


Quasi un affronto. Quando Lea Vergine confessa la propria intenzione di curare un’esposizione interamente dedicata all’«altra metà dell’avanguardia» (organizzata nel Palazzo Reale di Milano nel 1980), il critico d’arte Antonello Trombadori le chiede: «Ma una mostra solo di donne? Vi volete fare anche la storia dell’arte per conto vostro?». Da questa infelice battuta muove Self-portait. Il museo del mondo delle donne (Einaudi), capitolo ulteriore dell’originale progetto storico-critico cui Melania G. Mazzucco sta lavorando da qualche anno. Come una nuova ala della pinacoteca senza pareti in parte ordinata in un volume precedente (Il museo del mondo, Einaudi, 2014).

Per allestire la sua galleria «personalissima» e impossibile, fatta di ritratti nei quali la donna è autrice e anche soggetto («detiene il controllo della vita»), Mazzucco indossa gli abiti della curatrice involontaria, polemica verso le sterili rivendicazioni femministe, impegnata a squarciare il velo di censure e di silenzi che per decenni ha avvolto ricerche ostinate e solitarie, a lungo rimosse, a causa di pregiudizi e di omissioni.

Attenendosi all’approccio poetico già sperimentato ne Il museo del mondo, Mazzucco disarticola le cronologie consolidate, incurante anche delle provenienze geografiche, culturali e stilistiche. Elimina nessi e collegamenti, per disporre i vari profili in sezioni monografiche, che ripercorrono le diverse età della vita (Nascita e infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Vecchiaia) e alcune esperienze esistenziali decisive (Erotismo, Gravidanza, Aborto, Sessualità, Sorellanza, Maternità, Matrimonio, Lavoro).

In ogni area tematica sono radunate artiste lontane. Di ciascuna viene analizzata una sola opera, che è trattata, per riprendere un rilievo della filosofa marxista Ágnes Heller, come una persona concreta, portatrice di problematiche uniche e inviolabili, dotata di un’identità, di un carattere, di una singolarità, di propri diritti. I quadri sono considerati come palinsesti autonomi e chiusi in sé, eppure attraversati da tanti echi di fondo: rinvii storico-artistici e biografici non sempre consapevoli.

Per accostarsi ai quadri Mazzucco intreccia uno sguardo attento alla specificità del linguaggio pittorico con uno sguardo teso a estrarne vicende e segreti. Per un verso, si china su una fitta trama di figure e di colori. Per un altro, distante dall’ermetismo teorico e concettuale proprio di larga parte della critica d’arte attuale, si ricollega alla tradizione vasariana, attribuendo un’assoluta centralità alle vite degli artisti. Infine, procedendo per indizi e piste laterali, risale alle ragioni intime e private sottese ai dipinti, complessi ingranaggi visivi e materici che racchiudono narrazioni implicite, simbolismi nascosti, aneddoti non rivelati. Dunque, dall’opera alla vita. E dalla vita all’opera.

Le immagini sono trasformate così in discorsi. I quadri diventano drammaturgie, che vengono interrogate da una detective abile nel servirsi di una prosa classica e, insieme, seduttiva. Da Artemisia Gentileschi a Plautilla Briccia, da Carol Rama a Louise Bourgeois, da Marlene Dumas a Giosetta Fioroni e Jenny Saville, passando per Leonora Carrington e Berthe Morisot, per Suzanne Valdon e Marie Laurencin, per Frida Kalho e Georgia O’Keeffe, per Tamara de Lempicka e Gabriele Münther, per Sonia Delaunay e Natal’ja Goncharova. Una cartografia ricca di sorprese, in cui non mancano i nomi piuttosto eccentrici: Pauline Boty, Marie-Guillemine Benoist, Giulia Lama, Tarsila do Amaral, Eva Gonzalès, Marianne von Werefkin, Emma Ciardi, Katsushika Ōi e Helene Schjerfbeck.

Voci diverse che, tuttavia, condividono alcuni tratti caratteriali e la medesima filosofia dell’arte. Siamo dinanzi a «donne forti, eroine a loro modo, che rivendicano il diritto di volgere le spalle ai lavori domestici per contribuire lotta politica, e/o alla produzione culturale», osserva Mazzucco. Artiste erratiche, eretiche ed erotiche, che praticano quotidianamente la disciplina della pittura. E pensano visivamente, per immagini: «Ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, composizione verticale per accrescere l’effetto di percolo), parla».

Segnate dalle stigmate dell’alterità, spesso condannate a ruoli secondari, queste infaticabili sperimentatrici sembrano comportarsi come Euridice senza Orfeo. Espressione di un’urgenza testimoniale, nelle loro tele evitano ogni pietas. Sfidano le rappresentazioni tranquille, per consegnarci iconografie che trasudano tenerezza, disperazione e sacralità. Elementi distintivi: l’autoironia, il sarcasmo, il coraggio, la capacità di non sfuggire alle follie, alle devianze, ai tormenti e ai dolori, la volontà di raccogliere il vissuto, infine il ricorso alla memoria intesa come dispositivo prodigioso per salvare emozioni passate e come filtro per esorcizzare la morte. Artificio frequente: la deformazione. Tema centrale: la corporeità, luogo dal perturbante, territorio dove si smascherano finzioni e imbrogli.

Nelle mani di queste artiste disubbidienti e angosciate, arte e autobiografia sfumano l’una nell’altra. I quadri sono come lettere su cui vengono registrate inquietudini, tragedie e solitudini. Diari che dicono le imposture del quotidiano e, per ricorrere ancora alle parole di Lea Vergine, descrivono «la malattia mortale per eccellenza: la vita».

Il senso di questi ininterrotti affioramenti è in un’opera di Marlene Dumas, The Painter (1994). Un ritratto e, al tempo stesso, un autoritratto traslato. Al centro, in un contesto poco riconoscibile, una bambina statica, immobile. La bocca serrata, i capelli corti, biondi e radi. Le braccia, ciondoloni. È nuda, senza ornamenti. Si tratta di Helena, la figlia dell’artista. Il titolo del quadro – la pittrice – però, ci porta altrove, suggerendo una certa ambiguità. Di fronte a noi è «la bambina o la donna che la dipinge»?

Ideale epilogo di questo viaggio divagante, Last Self-Portrait (1945). Con un carboncino, su un foglio di carta, la finlandese Helene Schjerfbeck abbozza una sagoma spettrale. Non ha corpo né capelli. Solo la testa: la bocca, una linea; il naso, un rigo; gli occhi, un cuneo. È come se l’artista si sdoppiasse, per specchiarsi nella sua imminente morte. «Un’inversione – scrive Melania Mazzucco, che potrebbe coronare questo racconto della pittura in cui la donna è s-oggetto. Ma la morte non esclude la rinascita e il ritorno».


(Corriere della Sera, 30 dicembre 2022)

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