7 Maggio 2019
il manifesto

Il fascino di chi non si adegua

di Francesca Maffioli


Storia delle idee. Un’intervista con Mona Chollet a proposito del suo libro «Streghe», appena tradotto per Utet


«Le streghe sono ovunque» scrive Mona Chollet nel suo ultimo libro intitolato appunto Streghe (Utet, pp. 256, euro 18, traduzione di Eleonora Marangoni). Eloquente il sottotitolo dell’originale francese: «la potenza imbattuta delle donne», a disambiguare ogni dubbio di vittimismo o resa da parte delle protagoniste. Fin dagli anni Settanta l’immaginario femminista, secondo la giornalista e saggista franco-svizzera, è abitato dalla figura della strega che avrebbe preso sempre più spazio acquisendo una dimensione divisa tra il riconoscimento dell’oppressione storica e l’esaltazione della componente ribelle e rivoltosa.

Emblema delle persecuzioni, la strega è anche rappresentazione dell’inafferrabilità di quelle donne che non hanno voluto adeguarsi al modus vivendi delle varie epoche, già del 1976 Luisa Muraro ne La signora del gioco (riedito da La Tartaruga, nel 2006) aveva fatto risuonare le voci delle donne processate tramite l’esposizione diretta delle loro testimonianze. In Calibano e la strega (Mimesis, 2015), Silvia Federici interpretava la caccia alle streghe (XV-XVI) secondo la convinzione che le persecuzioni nei confronti delle donne avessero l’obiettivo di consolidare la supremazia del capitalismo, altrettanto utile è il volume di Barbara Ehrenreich e Deirdre English intitolato Witches midwives and nurses, pubblicato a New York nel 1973 (edito in Italia nel 1975 con il titolo Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna presso La Salamandra).

Incontriamo Mona Chollet nella sede di Le monde diplomatique, in un dialogo aperto alla comprensione delle similitudini tra l’antico e il moderno e a quelle che l’ecofemminismo continua a reperire tra la distruzione progressiva del pianeta e le istanze dominatrici dell’essere umano.

Lei scrive che i processi alle streghe non si sono svolti durante i secoli d’oscurantismo medioevale, bensì nel «mondo nuovo» – umanista – dove a regnare sarebbero dovuti essere razionalismo e chiarezza. La filosofa americana Susan Bordo parla di questo cambiamento epocale come qualcosa di drammatico…

Io stessa, nel mio immaginario, attribuivo al medioevo caratteristiche d’oscurantismo. Il processo di svalorizzazione è stato supportato da una logica «per opposizione» secondo cui l’umanesimo, l’antropocentrismo e la razionalità rappresenterebbero dei valori indiscutibili. In realtà la questione è profondamente più complessa, prova ne è che i processi alle streghe e le uccisioni di massa delle stesse si siano svolti perlopiù in epoca moderna. Invece di inneggiare ottusamente all’evoluzione della storia in senso forzatamente progressista sarebbe un onesto arricchimento culturale riconoscere che l’evoluzione in termini antropocentrici non esclude sistematicamente che si possa virare verso l’oppressione e la violenza sociale. I processi alle streghe sono nati da tutto questo, con il sovrappiù dell’oppressione sessista.

Le forme di controllo sui corpi delle donne e i processi per stregoneria cosa hanno in comune?

Nel mio libro ho voluto soffermarmi sulla questione, molto estesa, dei corpi non conformi e del rifiuto di ogni eccedenza che non fosse gestibile da parte del potere maschile. Durante i processi per stregoneria, ma anche prima (per la recluta delle colpevoli) le donne venivano sottoposte a una speciale e terribile «perlustrazione corporea»: venivano rasate, depilate e messe a nudo alla mercé di cosiddetti esperti che avrebbero dovuto riscontrare la presenza di «segni» della possessione demoniaca. Tuttavia la storia ci ha già detto molto a riguardo: bastava un neo, un’imperfezione, una cicatrice o anche nulla a scatenare accuse che generavano automaticamente condanne. Nei processi per stregoneria il corpo delle donne doveva essere visibile nella sua totalità e in seguito a sentenze sommarie questo stesso corpo era spesso bruciato e ridotto in cenere. Annientato. Per ritornare alla sua domanda mi sento di risponderle che in comune c’è sicuramente un desiderio di annientamento risolutivo del corpo delle donne, un grande timore per un’estraneità considerata fuori controllo, non dominabile nella sua interezza e quindi potenzialmente pericolosa.

[…]

Il movimento ecofemminista degli anni Ottanta nacque dall’idea che la cultura occidentale si comportasse con la terra allo stesso modo di come si comportava con le donne: entrambe erano identificate con i processi di creazione della vita e della morte. Trova possibile ricostruire un legame con la natura dalla quale le donne si sono autoescluse per timore di esservi identificate per forza?

Io ho scelto di non vedere il legame tra le donne e la terra come a un’intimazione essenzialista. Dico questo riconoscendo, come molte altre prima di me, i rischi dell’essenzialismo. Ma è importante rimarcare cosa hanno subito, in maniera analoga, le donne e la natura: esse hanno patito e patiscono del desiderio di domesticazione da parte dell’uomo. La «donna addomesticata» sarebbe infatti meno pericolosa, alla pari di un giardino domestico confrontato a una foresta. Gli studi ecofemministi poi hanno dimostrato come l’agricoltura, intesa come sfruttamento intensivo e abusivo della terra, abbia rappresentato una violenza molto simile a quella perpetrata per secoli sui corpi delle donne, e che continua a perpetrarsi. Trovo che i movimenti ecofemministi stiano riprendendo vigore e gli studi che continuano a farsi (come quelli riportati in Reclaim, a cura di Emilie Hache – Cambourakis, 2016) stiano generando delle rappresentazioni più eterogenee e insieme risolte del rapporto tra le donne e la natura.


(il manifesto, 7 maggio 2019)

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