12 Febbraio 2009
CORRIERE DELLA SERA

Il paradosso di Alice: un racconto epico senza effetti speciali

Simona Vinci

Nel suono del vento – di qualsiasi vento si tratti, dai gelidi soffi di Tramontana e Maestrale all’ umida nuvola dello Scirocco – si produce una specie di musica. È una musica che varia al variare della velocità con la quale le masse d’ aria vengono sospinte, dal modo in cui si infilano tra le strade di un centro cittadino, oppure correndo sopra le distese d’ acqua degli oceani o su campi aperti e paesaggi piatti. È comunque una musica, ed è sempre diversa. Non è un caso che l’ ultimo romanzo di Alice McDermott, Dopo tutto questo, appena uscito per la collana Stile libero di Einaudi, sia percorso, dall’ inizio alla fine, da raffiche di vento, come un rigo musicale in una partitura. Il libro si apre in una giornata di vento rabbioso che si abbatte sulle strade e scuote alberi, e persone, solleva turbini di polvere, foglie e cartacce e fa lacrimare gli occhi. Le strade sono quelle di New York e gli anni che il vento impetuoso pare voler annunciare con la sua furia sono anni di cambiamenti veloci e imprevedibili: gli anni Sessanta, che porteranno, tra le altre cose, la rivoluzione sessuale e la devastante guerra del Vietnam. All’ inizio della storia, Mary ha trent’ anni, vive con il padre e il fratello e lavora come segretaria in un’ azienda. Da brava ragazza cattolica di origini irlandesi è rassegnata a rimanere una zitella, e determinata ad accettare con ragionevole gratitudine quel che la vita può offrirle, per poco che sia. Ma il vento della storia – quella piccola, minima, la sua – spinge due uomini sulla sua strada. Uno dei due, lo sconosciuto incontrato davanti al bancone di un bar, quello con il passo leggermente claudicante e il ventre asciutto sottolineato da una cintura con la fibbia d’ ottone, sulla quale inspiegabilmente, la timida Mary avverte l’ impulso di posare la mano – sarà il compagno di una vita intera e padre dei suoi quattro figli. Jacob, Michael, Annie e Clare. Quell’ incontro è il seme della storia di una famiglia americana piccolo borghese – cattolica e di origini irlandesi, perché queste sono anche le ascendenze dell’ autrice. La famiglia è uno dei topoi ricorrenti nella narrazione – non solo letteraria – che l’ America fa di se stessa. Tutti i grandi romanzi americani in un modo o nell’ altro parlano sempre di famiglia. Però c’ è una differenza: quella raccontata in questo romanzo non è una famiglia estrema o «disfunzionale», è invece identica a migliaia di altre, e la sua storia è lieve e sottotono come lo sono moltissime vite. I Keane non hanno niente di eclatante o di romanzesco: sono persone semplici. Un soggetto abusato che avrebbe potuto declinarsi in una pedissequa saga familiare, attraverso la scrittura musicale e lo sguardo di Alice McDermott si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Mentre leggevo il primo capitolo, mi risuonava in testa quella vecchia espressione, oggi forse fuori moda, ma che conserva nella sua retorica appannata un certo fascino: il vento della storia. E in effetti, pensavo, a guardarle a distanza, dopo che gli eventi si sono conclusi, le cose che accadono nella vita danno comunque sempre l’ impressione di essere arrivate come arrivano i venti. Senza preavviso, impetuose e a volte violente. E quando la buriana è finita e si può sollevare la testa a guardare quel che è accaduto, in quel silenzio improvviso ci si accorge che il paesaggio circostante – il Mondo, o la nostra vita – è mutato. A volte impercettibilmente, a volte in modo così devastante che non si riesce più a riconoscere neppure un dettaglio di quel luogo che dovrebbe esserci familiare. Nelle orecchie, resta ancora una specie di musica. Alice McDermott scrive sinfonie. Ogni capitolo del romanzo potrebbe essere letto come un racconto a sé, un nucleo compiuto, con le sue regole formali e il suo preciso ritmo, un movimento insomma, che però è racchiuso dentro una logica più ampia. Come un seme di melagrana dentro il suo frutto. E da lettore vieni spinto in avanti da qualcosa che non assomiglia per niente alla logica del page turn che potrebbe tenerti avvinghiato fino all’ ultima pagina di uno dei tanti romanzi costruiti sul plot, i colpi di scena, la tensione. Eppure, lo stesso avverti una specie di prurito sotto pelle che ti spinge a seguire quel vento, quella musica, e continuare a leggere. In un’ intervista, la scrittrice ha dichiarato: «Non mi interessano le storie. Siamo bombardati di storie. Il notiziario delle 18 ha una buona storia quasi ogni sera. Nella letteratura… voglio vedere le cose di tutti i giorni trasformate non dalle circostanze in cui le osservo, ma dalla lingua con cui le descrivo». Una volta dimenticata una trama, una sequenza di eventi o un passaggio narrativo, a distanza di mesi, di anni o di decenni, che cosa resta di un libro che si è letto? La sua musica, qualcosa che in certo modo ti si incide dentro, e che è capace di ritornare così, di colpo, mentre stai pensando ad altro. Mary e John, dopo qualche capitolo passano sullo sfondo della narrazione e la scena viene occupata dai figli: sono loro quelli sui quali il vento della storia si abbatte, nel caso del figlio maggiore, Jacob, con la chiamata alle armi per la guerra del Vietnam, per gli altri tre in modi meno spettacolari, ma ugualmente significativi. A un certo punto del romanzo, Annie, la figlia più grande dei Keane, è seduta insieme alla sua amica Susan in una tavola calda e ha ancora gli occhi rossi di pianto: fino a pochi minuti prima si trovavano all’ interno di una clinica dove la sua amica ha abortito. Sono due ragazzine all’ ultimo anno delle superiori, e mentre Susan era dentro l’ ambulatorio, Annie finiva di leggere Addio alle armi e all’ ultima pagina era scoppiata a piangere senza riuscire a controllarsi. Ora, davanti al pranzo, le ragazze ricordano i finali più deprimenti e scioccanti dei libri che sono state costrette a leggere a scuola: una slitta che si schianta contro un albero in Ethan Frome, il sangue nella piscina del Grande Gatsby, Anna Karenina che si butta sotto un treno. Perché, si domandano – e con loro Alice McDermott – la letteratura dev’ essere questo? «Vogliono farci soffrire – disse Susan in tono sarcastico, perché Annie non si accorgesse che aveva una voglia terribile di mettersi a piangere. – Vogliono farci paura». Come se McDermott stesse domandando ai suoi lettori, oltre che a se stessa: è possibile fare letteratura evitando gli effetti speciali? È possibile provare a rendere epico il quotidiano? Fare esattamente il contrario di quello che fanno i giornali, i talk show televisivi, i film Block Buster e smetterla una buona volta di narrativizzare qualsiasi cosa? Questa è la sfida della scrittrice. Certo, se alla letteratura chiediamo il romanzesco, il plot, i colpi di scena, un libro come questo potrebbe deluderci, perché la scommessa di McDermott è proprio quella di raccontare la vita così com’ è. O meglio, di raccontare la memoria della vita così com’ è: con le sue ellissi, le sue lacune, i punti morti e le epifanie improvvise. In fondo simile a un albero strappato via dal suolo nel cuore della notte da un vento improvviso e crudele. L’ albero resta lì disteso, con i suoi anelli di accrescimento ben visibili a raccontare le annate della sua vita sulla terra, le radici esposte e la corteccia ricoperta di minuscoli ragni rosso sangue, i rami e le fronde affollati di ragazzini che giocano fingendo di trovarsi in mezzo a una giungla. Il cielo sopra di loro è azzurro e immobile: il vento, per adesso, è passato, e ha portato la sua musica da un’ altra parte.

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