16 Luglio 2008
l'Unità

Il romanzesco enigma di Irène Némirovsky.

Felice Piemontese

Il “caso Irène Némirovsky” si arricchisce di sempre nuovi elementi, man mano che la pubblicazione delle sue opere da parte della casa editrice Adelphi va avanti (sono finora apparsi cinque romanzi e un racconto lungo).
Tutto cominciò, come molti ricorderanno, con la pubblicazione della Suite francese (2004), un bellissimo romanzo tragico-picaresco sull’invasione nazista della Francia, best seller mondiale, che riportò all’attualità il nome di questa scrittrice fino a quel momento del tutto dimenticata. Nata a Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere rifugiato in Francia allo scoppio della Rivoluzione, la Némirovsky esordì giovanissima nelle lettere, ottenendo subito un vivo successo con romanzi come David Golder. Era ebrea, ma le sue descrizioni del mondo ebraico e dei personaggi che lo popolavano erano talmente crude e impietose da attirarle l’accusa di antisemitismo.
Del resto sembra accertato (come dice la biografia di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt recentemente pubblicata in Francia) che abbia collaborato con vari pseudonimi – durante l’occupazione nazista – a giornali d’estrema destra (ma anche a uno di sinistra). In più, c’è una conversione in extremis al cattolicesimo, fatta solo ed esclusivamente (la Némirovsky era agnostica) per mettere al riparo, se stessa e la sua famiglia dai pericoli incombenti. Per tragica ironia della sorte, tutto questo non le impedirà di essere arrestata dalla polizia francese nel luglio del 1942 ed essere deportata ad Auschwitz, dove morirà dopo qualche mese.
Il testo della Suite francese è rimasto per decenni in un baule, fino a quando le figlie della scrittrice hanno trovato il coraggio di portarlo alla luce e di darlo alle stampe. E ovviamente, dopo il successo mondiale del romanzo, gli editori si sono buttati a pesce sui libri pubblicati in precedenza dalla scrittrice, che negli anni Trenta (dopo l’esordio avvenuto nel ’29) era già considerata molto più di una promessa delle lettere francesi.
Una conferma ulteriore delle sue qualità viene dalla pubblicazione, sempre da parte di Adelphi, di un romanzo intitolato I cani e i lupi, apparso in Francia nel 1940 (la traduzione è di Marina Di Leo, pagine 234, 18,50euro) e che è tra i più significativi tra quelli pubblicati dalla scrittrice.
La prima edizione del libro recava un’avvertenza dell’autrice in cui si sottolineava il fatto che il romanzo non poteva non essere “una storia di ebrei” e che lei, convinta che “in letteratura non ci sono argomenti tabù”, aveva descritto l’ambiente a cui del resto apparteneva “con i suoi pregi e i suoi difetti”. Dichiarazione ineccepibile, e sciocco sarebbe (come pure qualcuno ha fatto) affrontare i cani e i lupi con argomentazioni extra-letterarie. Tutti i romanzi della Némirovsky si svolgono del resto nell’ambiente che volente o meno era il suo, ed hanno protagonisti che sono spesso ricchi (e sordidi) affaristi, spregiudicati banchieri, giovanotti ambiziosi e senza scrupoli, donne fatue e capricciose, preoccupate solo della propria bellezza e dei propri gioielli piuttosto che dei drammi che le circondano e talvolta le sfiorano.
Qui, ne I cani e i lupi, siamo a Kiev negli anni precedenti la Rivoluzione, e gli ebrei che vi risiedono sono suddivisi in tre aree distinte e distanti tra loro anni luce: i ricchi in collina, in grandi e lussuose ville che testimoniano la loro riuscita negli affari, i poveri, anzi “i dannati”, nella città bassa, “tra le tenebre e le fiamme dell’inferno”. Al centro i comuni mortali, piccoli commercianti, mediatori, medici, farmacisti, sempre in bilico tra l’ascesa e la caduta.
Ada, la protagonista del libro, è la bambina, figlia di un modesto intermediario che vive men che modestamente, convinto che la “condizione naturale” dell’uomo è quella di “spargere molto sudore per guadagnarsi un tozzo di pane”. Un giorno Ada vede un bambino della città alta, ricco, ben vestito, riccioli bruni, grandi occhi splendenti, e sa – oscuramente ma con certezza assoluta – che sarà quello l’uomo della sua vita, colui che amerà per sempre di un amore assoluto e pressoché indifferente a ciò che la vita riserverà ad entrambi.
Si rivedranno in circostanze drammatiche – uno dei periodici pogrom di cui gli ebrei erano vittime – e poi, molti anni dopo, a Parigi, dove le rispettive famiglie si sono trasferite. Lui, Harry, erede di una colossale fortuna, sposa la figlia di un banchiere francese, lei, Ada, sposa senza amarlo l’intraprendente cugino. Ma i loro destini sono destinati a incontrarsi, e a fondersi, per un certo periodo.
Poi, le cose si mettono in modo tale, da indurre Ada a rinunciare per sempre al suo amore, talmente assoluto del resto da autoalimentarsi quali che siano le circostanze esterne che lo condizionano.
È uno strano libro, quello della Némirovsky: se la parte iniziale sembra debitrice del romanzo naturalista francese in versione yiddish, il seguito è animato da preoccupazioni del tutto moderne, in cui la psicoanalisi ha un ruolo non secondario. Sta proprio in questo contrasto uno degli elementi di fascino del romanzo, che peraltro dà il meglio di sé nella descrizione, spesso crudele, dell’ambiente alto-borghese parigino che è quello che la scrittrice meglio conosceva, e rispetto al quale era animata da sentimenti decisamente ambivalenti: attrazione e repulsione profonda, fino all’odio (qualcuno ha parlato di “odio di sé” come caratteristica tipica di un certo ebraismo).
E se quella di Harry è una figura tutto sommato scialba, splendido è invece il personaggio di Ada, indifferente alle convenzioni e ad ogni idea di riuscita sociale e di carriera artistica (dipinge).
A caratterizzare inoltre il libro è quel tono febbrile tipico della Némirovsky, di chi teme che il tempo a disposizione sia troppo scarso rispetto all’urgenza delle cose da dire, delle storie da raccontare.

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