2 Gennaio 2006
il manifesto

Il sadico reality show di Amélie Nothomb

Acido solforico, l’ultimo romanzo della scrittrice belga, immagina un programma in cui i concorrenti vivono sotto l’occhio delle telecamere l’esperienza dei lager nazisti. Criticato per la sua crudeltà, il testo propone una tesi in fondo ovvia: l’umanità dei reclusi è lo specchio di chi sta fuori
Norma Rangeri

In Italia i reality sono in calo di ascolti, ma in compenso il loro linguaggio ha pervaso ogni angolo del palinsesto diventandone la nuova grammatica. Il format che tanto scandalo e stupore provocò al suo apparire ora è moneta corrente. Nel lacrimoso conformismo della tv in mutande si mima la vita, anzi la sopravvivenza. Si gioca con la reclusione (la casa del Grande Fratello, l’isola deserta), si mette in scena la lotta per non morire di anonimato ed è normale ascoltare frasi come “faccio i complimenti a chi è sopravvissuto al televoto”. Invece “cari telespettatori, grazie al vostro televoto, il condannato a morte di oggi è…” ancora non è andato in onda. Per il momento è solo fantatelevisione, solo un’idea scritta da Amélie Nothomb all’inizio del suo ultimo romanzo Acido Solforico (tradotto da Monica Capuani per Voland, pp. 131, euro 13), quando immagina il momento in cui l’attuale pornografia del quotidiano cede il passo allo “spettacolo della sofferenza”. Best seller nelle classifiche francesi, il libro di Nothomb rigurgita le scorie del reality, traduce in discorso sociale la polvere sottile respirata a ogni ora e latitudine. Se in tv si nasce, si ama, si divorzia perché non si deve anche morire?
Prodotto inventato nei laboratori olandesi, il reality è un format nato sull’albero della vecchia Europa, come già avvenne per altre pandemie, quando la televisione era solo un prototipo e la Germania offriva altre reclusioni di massa. La new age dell’iperaggressività nel game di sopravvivenza ha avuto un grande successo negli Usa, patria di Fear Factor (guerra a chi mangia più vermi e scarafaggi), Extreme Makeover (interventi di chirurgia plastica), e dove i telespettatori hanno dato un duro colpo al presidente Bush, battuto negli ascolti proprio dal reality Simple life della Fox (la vita di ricchi rampolli tra le vacche in una fattoria dell’Arkansans). La guerra di sopravvivenza allude al combattimento: “guerra et circenses”, corpo a corpo fino alla vittoria. Se nel mondo gli uomini si massacrano con guerre e terrorismo, nel piccolo schermo si mima una lotta incruenta dove si spara con il turpiloquio e si gode a ogni eliminazione del concorrente-rivale.
L’autrice di Acido Solforico racconta con stile ferrigno la storia di “Concentramento”, un programma estremo, sceneggiato nei minimi particolari. Sul modello dei campi nazisti, le persone vengono catturate per strada (“l’unico criterio era l’appartenenza al genere umano”), blindate sui camion e scaricate nel lager. Indossano una divisa e un numero, i loro documenti vengono bruciati perché il nome diventa un’arma identitaria troppo pericolosa, un incitamento alla sovversione. Kapò (i nostri attuali conduttori), torture, lavori forzati e morte sicura per chi non è più abile al lavoro. Unica differenza con il lager nazista: le telecamere che riprendono ogni angolo del campo. È la tv che si scrive morendo. Più si soffre più si risulta telegenici. Ma nessuna illusione: cinismo e sadismo hanno superato da tempo il filo spinato e ci fanno compagnia in salotto.
Acido Solforico è un romanzo che ha fatto storcere il naso, criticato per la scrittura sporca e ripetitiva, accusato di esagerare con il paragone nazista. Come se nell’epoca in cui un grande ceto medio planetario impara la normalità dalla televisione, l’escamotage del paradosso nazista fosse un delitto di lesa maestà. La tesi del romanzo è persino banale: l’umanità dei reclusi è lo specchio di chi sta fuori. Noi spettatori – ancor di più se con l’alibi dello sguardo intelligente – siamo i killer, gli apprendisti stregoni che alimentano la carneficina “perché spesso un programma televisivo è l’unico argomento di conversazione tra le persone”. I veri kapò sono al di qua dello schermo (“alcuni lettori scrissero per chiedere se anche i prigionieri venissero pagati per essere uccisi”). Alcune scene sembrano rubate a Truman show (“nella sala dai novantacinque schermi, gli organizzatori guardavano la scena rapiti”), si allude al grande occhio della modernità descritto dal Panopticon di Jeremy Bentham, il filosofo inglese che inventa il modello di carcere laborioso dove da una torre al centro di una costruzione ad anello una sola persona può sorvegliare tutti i detenuti.
Fagocitato dall’ansia della visibilità l’homo videns ha perso la sua ombra. La pubblicizzazione del privato – come da tempo sostiene Umberto Galimberti citando il Sant’Agostino di “in interiore homine habitat veritas” – è “l’arma più efficace impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare”. Un tratto che solo una persona, la protagonista del romanzo, riesce a salvaguardare, e che le consentirà, alla fine, di distruggere il meccanismo di “Concentramento”. Ma intanto la sensazione di claustrofobia è insopportabile, sembra una situazione senza via d’uscita perché l’auditel vertiginoso alimenta lo show e “Concentramento” fa registrare il più alto indice di ascolto (il cento per cento) mai raggiunto. Quando l’eroina del campo (così bella e angelica da risultare la beniamina del pubblico: quale vittima sacrificale migliore?) dà scacco matto al meccanismo mediatico chiedendo di essere televotata a morte (“spettatori votate per me stasera!”), il romanzo regala il colpo di scena con l’happy end.
La scrittrice rifà il verso al dibattito odierno: editoriali scandalizzati, politici imbelli, telespettatori incapaci di spegnere il video. La tragedia si svolge in un’atmosfera di pubblica impotenza. L’autoreferenzialità del congegno mediatico è apparentemente inattaccabile. Certo oggi ai telespettatori non si affida il compito di decidere chi, in quella settimana, deve essere mandato a morte. E chi viene escluso dai nostri reality non trova il boia ma la luce delle telecamere che lo accolgono nei salotti della domenica pomeriggio, dove, in fondo, ad essere uccisa è solo l’anima.

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