di Stefania Tarantino
Recensione al libro di Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale, Mimesis, Milano 2016 (145 pp. 16 euro)
Partire dalla vita concreta, dalla fisicità dei nostri corpi, dalle contraddizioni dell’anima e dei nostri più intimi desideri. Pretendere da noi stesse finezza e acutezza di pensiero per distinguere con precisione ciò che si insinua subdolamente in ambiti che non gli competono, smascherare tutto ciò che non si sottopone al vaglio del pensiero critico femminista. Essere ironiche sempre, con noi stesse e con tutto ciò che ci appare pesante, grigio, monotematico, triste. Congedarsi da coloro che si presentano troppo sicuri di sé e che pretendono “ancora” di parlare al nostro posto perché, in fondo, sappiamo che non hanno mai fatto i conti con il sudore dell’intelligenza, con il tarlo del dubbio, con le incertezze che da sempre sono la linfa vitale di ciò che siamo e sappiamo. Chiedere che i libri trasudino di vita, che sprigionino quel qualcosa di vero che ci tocca l’anima e che a tratti sentiamo di poter toccare addirittura con mano. Fare in modo che le letture che ci nutrono ci trasformino e ci aprano altre possibilità, prima di allora impensabili e invisibili, e che ci rendano talmente forti e coraggiose da mantenere sempre alta la nostra capacità di aprire conflitti laddove l’uniformità ci schiaccia su modelli che ci tolgono il respiro e la libertà di essere pienamente noi stesse. Ecco, sono queste le prime cose che mi sono venute alla mente e al cuore nella lettura che ho fatto dell’ultimo libro di Tristana Dini. Un progetto lungo, faticosamente portato a maturazione, perché nato all’interno di una relazione interrotta dalla scomparsa improvvisa e prematura di Angela Putino, e che, nonostante questo, è riuscito a sprigionare quella forza femminile che, ad Angela, è stata sempre così cara. Questo libro fa ordine nei nostri pensieri in un momento di grande confusione e spaesamento, ci invita a fare esercizi di complessità e densità attraverso una ricognizione attenta delle varie produzioni femministe degli ultimi quarant’anni ma, allo stesso tempo, mettendole in relazione ai cambiamenti economici e politici che nel frattempo si sono imposti. La congiunzione sempre verde e sempre attuale – se solo pensiamo alla recente elezione di Trump che riporta alla ribalta l’immagine vincente dell’uomo bianco, ricco, proprietario – di “ordine sovrano, statale” e “ordine simbolico” mostra la difficoltà di voltare pagina e di trasformare il nostro modo di pensare e, direi anche, di cambiare la nostra stessa “forma” di vita. Ancora facciamo i conti con situazioni che sembravano superate, poiché esistono barriere profonde che ci obbligano a non abbassare la guardia e a fare un lavoro culturale, politico, istituzionale che sia capace di andare al cuore delle questioni. Ecco perché la differenza sessuale trova, in questo libro, un posto di assoluto rilievo. È a partire dal suo punto di avvistamento che l’autrice muove una critica serrata alla biopolitica e alla questione della sacralità della vita nella lunga tradizione teologico-politica dell’Occidente che conosciamo. La differenza sessuale, scrive Tristana Dini, è sì sempre partita dalla biologia ma per andare oltre. È, infatti, una questione che attiene al simbolico, al linguaggio, alla conoscenza, alla percezione che abbiamo di noi stesse/i. Riprendendo Ida Dominijanni, l’autrice fa sua l’idea che è il principio del non uno all’origine del soggetto a mettere al centro quella dis-unità incarnata che offre una nuova visione della soggettività. La rottura del principio dell’uno porta con sé la rottura del principio del due che non è altro che una contrapposizione speculare alla logica dell’uno. Si tratta allora di disinnescare l’opposizione binaria patriarcale per dare vita a un nuovo modo di pensare e di agire. Questo modo altro è il movimento che Tristana Dini riconosce al pensiero della differenza sessuale, un pensiero che ha messo radicalmente in discussione – certo non senza difficoltà – quella congiunzione di ordine sovrano e di ordine simbolico. Il taglio della differenza si riferisce all’eccedenza di una differenza che ha sempre cercato di sottrarsi a questa infelice congiunzione. L’autrice sa bene e lo scrive con grande chiarezza che c’è una linea sottile, terribilmente ambigua, che produce fraintendimenti, furti, sovrapposizioni e, direi anche, falsi amici (nel senso proprio della traduzione di alcune lingue neolatine molto vicine e similari). Sempre più spesso accade che l’operatività femminile, le sue più intime qualità (in senso arendtiano) siano fagocitate da qualcosa che ne distorce il senso e la portata, ma, nonostante questo, oggi come ieri, c’è sempre “un piccolo frammento di inaddomesticato” (Putino) che riesce a non farsi afferrare e che, nel corso del tempo, è stato letto come follia, isteria, eresia (Irigaray) dalle grandi strutture di potere repressivo ecclesiastiche e laiche. Tristana Dini riconosce che è ancora una volta nell’evento della libertà femminile che oggi si produce quel punto di attrito tra biopolitica e democrazia in cui al massimo dell’oggettivazione corrisponde un movimento di soggettivazione teorica e pratica che consente alle donne di non essere più legate alla funzione riproduttiva nel senso di un destino immutabile. Non ne va più di un destino, ma di una libertà. Ne va sempre della libertà femminile. E non è un caso che la peggiore politica maschile, soprattutto quando è in crisi, associ la difesa della sacralità della vita a un volgare e mediocre consumo del sesso femminile.
La genealogia femminile che oggi esiste e fa storia trasmette il senso di questo frammento, di questa intima eccedenza che consente di valicare i confini del sé, di scompigliare il simbolico dominante, di portare disordine in un ordine imposto con la forza. È quel felice sconfinamento che tempo addietro ha consentito alle donne di non stare più nel posto che era stato loro assegnato e che ha permesso di disobbedire sia alla legge del padre che a quella del potere.
Il potere usa giochi di prestigio, lavora su meccanismi psichici profondi e mette in atto veri e propri “trucchi” per citare ancora Ida Dominijanni, che ci imbrogliano facendoci credere che alcune cose siano interscambiabili, equivalenti, che siano la stessa cosa. Ma così non è. Solo attraverso un costante esercizio di autoriflessione su noi stesse, sul mondo, sulla pluralità di relazioni che viviamo ogni giorno, possiamo schivare il pericolo di ritrovarci in luoghi in cui non siamo e in parole in cui non ci riconosciamo (Lonzi). Anche in quelle che sembrano così vicine a noi come, ad esempio, alcune parole filosofiche maschili del Novecento che, troppo spesso, hanno metaforizzato la “differenza femminile”, per smantellare e criticare l’impianto tradizionale della filosofia occidentale. Qui Tristana Dini mette in luce come questa differenza sia stata proposta come posizione alternativa al logocentrismo maschile, come prospettiva decostruttiva rispetto ad essa, ma ripresentandola senza riferimento alle donne reali e ai loro corpi incarnati. Parlare dei corpi reali significa invece per l’autrice parlare di quel volto, di quella voce, di quello stile, di quel chi unico e irriducibile ad altro che ci sta davanti e che riconosciamo, sentiamo, vediamo.
Questo riguardo per la singolarità, la parzialità, l’unicità, scaturisce dal “semplice” fatto che la soggettività femminile è sempre dentro, visceralmente intrecciata, a una dimensione relazionale in cui la vulnerabilità è l’espressione massima della fragilità ontologica della creatura umana. Le donne hanno un sapere profondo della vita, della conformazione attiva e passiva della soggettività umana, delle sue luci e delle sue ombre. Ecco perché a questa indebita appropriazione si tratta di rispondere oggi rimettendo al centro le donne reali, il chi, il volto e la parola di donne in carne ed ossa, la portata enorme che la loro “materiale vita” può avere sul presente e sul futuro.
Ma stando sempre molto attente perché il punto critico è che è proprio questa materiale vita ad essere sotto attacco dalla biopolitica. La biopolitica, infatti, ha capito fin troppo bene il grande valore di questa soggettività relazionale e il profitto che da essa si può ricavare. Sempre più la biopolitica si insinua subdolamente nelle relazioni asimmetriche di potere ma pervertendo la portata simbolica, affettiva, che c’è dietro di esse. Se l’economia ha fatto leva sul lavoro implicito delle donne ma senza mai riconoscerlo come un lavoro in quanto tale, oggi, invece questo è pienamente riconosciuto e diventa addirittura marketing.
Il paradigma politico classico si è fondato su quella logica binaria che ha reso invalicabile il confine tra zoé e bios, tra una nuda vita senza forma e una forma di vita specificamente umana. La nuda vita ha rappresentato da sempre tutto ciò che l’essere umano aveva in comune con gli animali e che lo legava all’orizzonte della necessità e del bisogno di sopravvivenza, mentre la vita sacra era la sola vita degna di essere vissuta poiché era l’unica vita in grado di essere guidata razionalmente e di abitare lo spazio politico. Il pensiero femminista ha mostrato però che la dimensione della zoé non può essere scissa da quella del bios e che è da come imposteremo il rapporto tra queste due dimensioni della vita che potrà aprirsi un nuovo scenario per il futuro.
Ora, vorrei concludere con due riferimenti che hanno a che fare con un possibile nuovo scenario: il primo, seppur estraneo al libro, è relativo a un passo di Cristina Campo che dice che con un cuore legato non si entra nell’impossibile, non si scardinano i rapporti, gli ordini sovrani e patriarcali che ci tengono in pugno, perché il cuore è l’elemento fisico della percezione ed è la materia prima dell’esistenza, l’organo misterioso di presagi e corrispondenze. Il secondo riferimento è la conclusione dell’introduzione scritta a quattro mani da Angela Putino e Tristana Dini in cui leggiamo: “Spazzare via qualunque affinità tra la biopolitica e la maniera in cui la donna conduce il vivente per poter riconcettualizzare che cosa significhi da parte di una donna il discorso sull’amore, sull’eros e come questo costituisca in effetti la più reale alternativa alla dimensione programmata della cura del vivente proposta dalla biopolitica”.
La confusione svanisce, l’ambiguità si dissolve, il vicolo non è più cieco e il lavoro da perseguire ci sembra molto più chiaro.
(Singolarità, parzialità, unicità
(Leggendaria 122, marzo 2017)