27 Settembre 2009
il manifesto

Il tarlo di Bourgeois

Elena Del Drago

Nel 1923 la ormai quasi centenaria artista francese cominciò a tenere un diario, che presto si affiancò al disegno e poi alla scultura. Finalmente tradotto dalla Quodlibet Distruzione del Padre Ricostruzione del padre, Scritti e interviste 1923 – 2000, è un immane corpo di pensieri, notazioni, persino proverbi, tutti generati da ossessioni e immagini familiari, mai metabolizzati. In questi giorni, Louise Bourgeois è anche presente al Castello di Ama con un’opera in marmo RICAPITOLAZIONI PER UN TRAUMA REMOTO

Un secolo di vita e di arte, di pulsioni, di moti di fastidio alternati a grandi passioni e altrettanti odi passano nella produzione teorica e letteraria di una delle più grandi artiste viventi, Louise Borgeois, finalmente tradotta in italiano da Quodlibet con il titolo Distruzione del Padre Ricostruzione del padre, Scritti e interviste 1923 – 2000, (traduzione di Marcella Majnoni e Giuseppe Lucchesini, pp. 442, euro 32,00). La pubblicazione puntuale di questo libro suona come una manifestazione di ottimismo, tanto più significativa in quanto l’editoria artistica italiana pecca solitamente di pigrizia nelle traduzioni di testi anche fondamentali. Gli scritti si succedono in ordine cronologico e cominciano molto presto, nel 1923, quando Louise Bourgeois inizia a tenere un diario personale, dove segna i suoi pensieri, i suoi appuntamenti, i fatti quotidiani: una pratica che l’accompagnerà durante il corso della vita intera.
È un immane corpo di pensieri quello che si offre al lettore, plasmato a partire da quando, poco più che adolescente, Louise Borgeois cominciò il suo viaggio nella scrittura (nel libro vengono riprodotte anche alcune pagine scritte con una grafia ancora infantile) e approdato al testo intitolato I cinque ebbene, pubblicato in occasione della grande retrospettiva alla Tate Modern nel 2000.
La parabola di una entusiasta
I primi scritti ci addentrano nell’entusiasmo giovanile dell’artista, testimoniando dei suoi slanci per uno stile definito, che si esprime in ambito ancora tutto pittorico. Soprattutto attraverso il carteggio con l’amica artista Colette Richarme filtrano i dubbi e la tristezza legate all’abbandono dell’Europa e della famiglia nell’imminente scoppio della seconda guerra: poco prima, infatti, Louise aveva incontrato Robert Goldwater, il celebre storico dell’arte americano con cui aveva scelto di trasferirsi a New York. È qui che ha inizio la vita adulta dell’artista, ed è qui che si avvia quella «decostruzione e ricostruzione del Padre» intorno alla quale ruota il suo intero percorso.
«Mi chiamo Louise Josephine Bourgeois. Sono nata il 24 Dicembre a Parigi. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma». Grazie alla sua capacità analitica e sintetica al tempo stesso, Louise Borgeois individua, dunque, nei primi anni familiari quella fascinazione e quel trauma per esorcizzare i quali lavorerà una intera vita: tutto sembra nascere da un tradimento, e dal conseguente senso di colpa. L’amatissimo padre comincia a interessarsi di altre donne, poi stabilisce una relazione speciale con la tata assunta proprio per allevare Louise e i suoi fratelli. La madre, vera anima dell’attività familiare che consisteva nel restauro degli arazzi, secondo le migliori convenzioni borghesi fa finta di niente, avallando così un ménage familiare doloroso, soprattutto per Louise che non perdonò mai suo padre né se stessa per quella rottura dell’incanto infantile. Nel 1982, in un progetto per Artforum intitolato Child Abuse l’artista rivelava il tarlo responsabile del suo lungo percorso attorno al corpo, alla sessualità, agli organi genitali trasformati in totem simbolici di una paura sempre presente, di una ferita rivelatasi come irreparabile.
Nell’impaginazione riprodotta nel volume della Quodlibet si vedono due fotografie speculari: in quella a sinistra Louise Bourgeois bambina è con la tata, amante del padre; in quella a destra, che ha per sfondo il medesimo paesaggio, è con il padre. Molto chiare le parole che accompagnano le immagini: «Qualcuno di noi è ossessionato a tal punto dal passato che ne muore. È l’atteggiamento del poeta che non trova mai il paradiso perduto, ed è proprio la situazione degli artisti che lavorano per una ragione che nessuno capisce fino in fondo. …Tutto quello che faccio è ispirato dai primi anni di vita. La donna in bianco è L’Amante. Fece ingresso in famiglia come precettrice, ma andava a letto con mio padre ed è rimasta con noi dieci anni». Dunque, la distruzione e ricostruzione del padre diventa un passaggio necessario per liberarsi dal trauma che peraltro non si fa rimuovere se non attraverso l’esercizio della scrittura e del disegno prima e poi della scultura, che condensa riflessioni ed emozioni in una forma rivelatoria. Il passato domina il pensiero di Louise Bourgeois scritto dopo scritto, intervista dopo intervista.
Con l’occhio alle spalle
L’Album del 1944, edito nella versione originale da Peter Blum, finisce così: «Ogni giorno bisogna abbandonare il proprio passato. E accettarlo. E se non si riesce ad accettarlo, allora bisogna fare lo scultore! In qualche modo bisogna provvedere. Se rifiutate di abbandonare il vostro passato allora dovete ricrearlo. È ciò che faccio da sempre.» Ruotano dunque intorno a una sorta di peccato originale tanto la produzione teorica di Louise Bourgeois quanto quella scultorea: ogni lavoro, ogni installazione ambientale – dal celeberrimo, monumentale, ragno intitolato Maman, alla Femme Couteau, affilata e pericolosa, a Fillette, il pene con il quale volle farsi ritrarre da Robert Mappelthorpe, fino agli antropomorfici Cumuls – tappe che si propongono come momenti di un percorso all’indietro, capace di ricongiungersi a situazioni familiari terribilmente dolorose e altrettanto formative. Sono opere che rimandano anche alla incomunicabilità e a quella solitudine che gli scritti di tanto in tanto quasi rivendicano: se comunicare fino in fondo si rivela impossibile, tanto vale rinunciarvi in partenza. Ma il libro non si limita a proporre e dare forma al solo universo privato di Louise Bourgeois, perchè sono molti i grandi artisti che lo attraversano, e che lei si trovò, suo malgrado, a frequentare quando era a New York: tra questi Marcel Duchamp e Andrè Breton, troppo presi da se stessi per devolvere la loro attenzione al lavoro di una artista che non intendeva accreditarsi attraverso le armi abusate della femminilità.
Louise Bourgeois non esita a dichiararlo in diverse interviste: il suo non è un femminismo ideologico, è piuttosto la coscienza della difficoltà che le donne devono affrontare per trovare un proprio equilibrio, che il passaggio da compiere sia quello della maternità o che sia la necessità di dividersi tra affettività e autorealizzazione. Ma proprio l’esperienza della maternità funziona da motore centrale per la riflessione e l’esperienza che dell’arte fa Louise Bourgeois: a un tempo costrizione e rifugio, bozzolo di dolore e massima espressione di sé, è il più fondamentale dei passaggi esperenziali, il paradigma della specificità femminile. L’artista ci torna su a più riprese, mostrando un desiderio di essere madre assoluto eppure frustrato dalla paura di non essere fertile: così forte questa paura da spingerla, appena sposata, ad adottare, con immani difficoltà, un bambino. Ma più tardi, due figli le nasceranno da gravidanze che Borgeois esaminerà in opere di una forza straordinaria e con materiali molto espressivi: in The Woven Child, per esempio, viene materializzata attraverso il cucito e dunque il ricordo, la forza viscerale dei potere/dovere di generare. Quella di Louise Bourgeois è una maternità sempre legata al senso di abbandono, altro sentimento protagonista del libro, che riaffiora qua e là nel corso della sua intera esistenza, prima stimolato dallo scoppio della guerra, poi dalla morte della madre. E c’è poi quella impossibilità di credere fino in fondo in se stessa: «Ho sempre avuto dei complessi di colpa nel promuovere la mia arte, al punto che prima di ogni mostra avevo sempre qualche tipo di malore, così decisi che era meglio lasciar perdere. In fondo mi pareva che la scena artistica appartenesse agli uomini e che in qualche modo invadessi il loro dominio. Perciò il lavoro, una volta finito, veniva nascosto… D’altra parte non distruggevo niente. Conservavo ogni frammento».
Verso il vivere comune
Sono parole che permettono, tra l’altro, di comprendere l’accumulo impressionante di materiali artistici elaborato su svariatissimi supporti, e la produzione smisurata di una scrittura che soltanto di recente ha trovato una sua organizzazione. Con il passare degli anni, infatti, gli scritti di Bourgeois sembrano lasciare le pastoie della quotidianità, ma anche il risentimento per un vissuto infantile sempre più lontano, e passano a raccontare con grande profondità di sentimenti il vivere comune.
Un testo scritto nel 2000 per accompagnare la grande installazione della Turbine Hall e intitolato I do, I Undo, I Redo, il gigantesco ragno con il quale Luoise Bourgeois è diventata in qualche modo popolare, sottolinea, per esempio, in cosa consista per lei il concetto del fare: «Fare è uno stato attivo. È un’affermazione positiva. Ho il pieno controllo e procedo verso uno scopo, una speranza o un desiderio. Non c’è paura. Nei termini di una relazione, va tutto bene, tutto è tranquillo. Sono la buona madre. Sono generosa e premurosa – sono colei che dà, colei che provvede. È il “Ti amo”, qualunque cosa accada.»

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