4 Giugno 2021
bonculture

Il tempo della rivolta di Donatella Di Cesare

di Antonietta Lelario


Ho letto questo saggio come un romanzo grazie all’appassionato amore per la libertà di Donatella Di Cesare, che traspare da ogni pagina, ma anche perché lì ho trovato ciò che in fondo si cerca nei romanzi: capire la realtà in cui siamo immessi, orientarci meglio nel nostro tempo. Credo che questo di capire di più sia un bisogno diffuso che non trova risposta nei mass media i quali non lasciano più spazio a domande vere, perché saldati strettamente a una politica chiamata solo a gestire e amministrare il dettato dei mercati. Tutto si consuma in un cerchio chiuso, salvo a cercare personalmente e con fatica i varchi per un altro tipo di comunicazione. Questo saggio su Il tempo della rivolta di Donatella Di Cesare è uno di quei varchi.

Il libro è una miniera di informazioni sulle molte rivolte che hanno costellato il nostro tempo: dalle primavere arabe a Occupy Wall Street, dalle rivolte delle banlieue parigine ai movimenti ecologisti, dai cortei di donne ad Anonimous, dalle manifestazioni dei neri alle performance artistico politiche, agli attraversamenti di confine dei migranti, ai gesti di chi li accompagna. Leggerlo mi ha continuamente richiamato alla memoria il respiro che ho provato ogni volta che ho visto questi sussulti della storia anche se avvengono in Spagna o a New York o nelle strade dei paesi latini, dove le donne gridano allo Stato: “Lo stupratore sei tu!”.

Questo saggio cerca un ordine, senza lasciarsi intimidire dai molti volti che le rivolte assumono. E come si fa a cercare un ordine senza voler classificare, irregimentare, irrigidire? Cercando tracce nascoste di senso, avventurandosi sul piano simbolico!

Il saggio è quindi anche un esercizio di lettura simbolica che cerca collegamenti inediti e osa smascherare la nudità del re.

Donatella Di Cesare dice: “Le migrazioni e l’aiuto che i migranti trovano nelle ONG e in tante associazioni fanno affiorare un’altra visione che non è solo extra-istituzionale, ma mette in discussione tutto l’apparato concettuale della modernità: dal tema della sovranità a quello del contratto, dall’idea di nazione a quella di cittadinanza e di frontiera statuale … Carola Rackete e i nuovi disobbedienti sono fuorilegge o cittadini esemplari? Minacciano l’ordine pubblico o consentono alla legge di ritrovare il senso perduto della giustizia?”. L’autrice intercetta le domande che ci siamo fatti pensando a queste azioni, alle scelte di Mimmo Lucano o alla lettera rivolta all’Europa della ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, ai gesti di Lorena Fornasir e Gianandrea Franchi con la loro associazione Linea d’Ombra. È vero! Sono gesti che “fanno appello al bisogno di giustizia mortificato, ma non ucciso all’interno della comunità”. E mostrano delle possibilità. Per cui il nostro tempo appare attraverso lo sguardo dell’autrice un tempo di possibilità.

Queste possibilità irrompono come lampi nel cielo della notte per smentire la vulgata postmoderna che proclama la fine della storia e vorrebbe condannarci a un eterno presente. Ma per vedere il sentiero che questi lampi illuminano solo per breve tempo bisogna allenare lo sguardo.

Noi donne siamo abituate a questa Storia che rompe la linearità del tempo perché i segni della libertà femminile sono sempre stati presenti ma in modo discontinuo, nel passato, in donne che hanno fatto apparire l’impensabile per il loro tempo, penso alle mistiche, ma anche a Olimpia de Gouges, alle scrittrici, alle scienziate che hanno ripensato il rapporto con la natura, o che, anche oggi, introducono elementi nuovi nel metodo scientifico o nell’economia, nella gestione dei Beni Comuni, e, nel pensiero, attraverso l’attenzione alla differenza sessuale. Questo modo di abitare il tempo mi è congeniale.

Quindi accolgo con gioia l’invito dell’autrice che, avvalendosi anche dell’autorità di Benjamin, invita a superare una concezione del tempo secondo cui il prima deve preparare per forza un dopo, a ogni causa deve seguire un effetto come se si trattasse di un ragionamento astratto e non della vita con la sua imprevedibilità, con i suoi inciampi, con le sue improvvise aperture all’imprevisto, con i suoi ritorni. A strade indicate e non ancora percorse?

Forse il modo femminile di rapportarsi alla Storia oggi può essere utile a tutti, ho pensato mentre leggevo.

E così con gioia ho accolto, in un momento storico in cui il termine identità la fa da padrone in ogni salsa, la polemica che l’autrice apre con Schmitt a questo proposito contrapponendo alla politica identitaria la vastità anarchica del mare che si sottrae alla legge del confine e facendo l’occhiolino alle donne che in quei confini non si riconoscono. “E perché poi, dovrebbero?”, lei dice. E a me è venuto in mente la torsione che noi donne abbiamo dato al vecchio slogan Donna non si nasce, si diventa, affermando invece Donne si nasce e si diventa che è stato il nostro modo di uscire dalla trappola identitaria, ricongiungendo natura e cultura, essere e divenire, radicamento e tensione verso l’infinito.

Infine, ma ci sarebbe tanto altro da dire, Donatella Di Cesare ci fa vedere come queste rivolte assecondino dei cambiamenti storici e delle trasformazioni nella forma del potere, infatti il passaggio dalla fabbrica alla piazza ha mostrato che non è più solo il lavoro al centro della contesa, ma l’insieme delle condizioni di esistenza perché il potere oltre a controllare lo spazio pubblico, decidendo ciò che è visibile e ciò che è dicibile, disciplina i corpi e invade le coscienze. Mi viene da pensare che nel passaggio alla piazza l’alleanza fra operai e studenti degli anni ’70 si allarghi alla grande marea femminista, facendo spazio ad anziani e giovani, a vecchi e nuovi esclusi.

Ma oggi è in corso un terzo passaggio di fondamentale importanza, ci dice l’autrice. Le nuove rivolte ruotano intorno alla questione dell’abitare intesa non come possesso dell’abitazione, ma “come rapporto politico esistenziale a sé, agli altri, alla terra” e sfidano la politica ad affrontare questo terreno: “come risiedere? come coabitare?”

Questo saggio si legge come un romanzo e come un romanzo chiede la collaborazione di chi legge e, come in tanti romanzi, il suo finale è aperto. La continuazione è affidata a noi, al nostro anelito ad una politica differente che sappia “liberare le forme di vita”, e qui di nuovo torna l’insegnamento femminile.


(www.bonculture.it, 4 giugno 2021)

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