27 Gennaio 2007
IO DONNA

Intervista a Elena Ferrante

Marina Terragni

“Nessuno dipendeva più dalla mia cura e io stessa finalmente non mi ero più di peso”: napoletana trapiantata a Firenze, alle soglie dei cinquanta, divorziata, insegnante di letteratura inglese, Leda si ritrova sola -le due figlie hanno raggiunto il padre in Canada- e inaspettatamente sollevata: “mi sentivo leggera come se solo allora le avessi definitivamente messe al mondo”.
Decide di prendersi una vacanza sullo Ionio, dove incontra una famiglia napoletana dai modi camorristici, al centro della quale c’è una coppia madre e figlia, Nina e la piccola Elena con la sua brutta bambola al petto. L’incontro diventa per Leda la prima stazione di un percorso di passione, una caduta nel gorgo di sé e del proprio vissuto di madre e di figlia. E’quello stesso disfarsi, quell’andare in frantumi già sperimentato dalle altre protagoniste dei romanzi di Elena Ferrante (Delia in “L’amore molesto”, Olga nei “Giorni dell’abbandono”), che fa anche della lettura dell’ultimo “La figlia oscura” (sempre E/O) un’esperienza tesa e “disturbante”, terza tappa di una ricerca feroce sull’identità femminile e sulla madre.
Di Elena Ferrante non si conosce nulla, se non la formidabile scrittura. Le rarissime interviste non hanno intaccato il mistero della sua identità, su cui si fanno molte astruse congetture, cosa a cui però lettrici e lettori, fedeli a ogni appuntamento, non sembrano dare troppa importanza. Anzi, forse il fatto che la sua persona non si frapponga, che sia solo la carne del racconto a bruciare, gli permette di diventare immediatamente carne di chi legge, esperienza di scrittura-lettura unica nel nostro panorama.
Elena Ferrante ha eccezionalmente accettato di rispondere alle nostre domande via e-mail. Non abbiamo parlato di lei, ma dei personaggi in cui il suo e il nostro sé si frantuma e si specchia, a cominciare dalla giovane madre Nina e dalla sua bambina.

La bambina si chiama Elena come lei: è per caso? E’ sbilenca, sporca, bruttina. Nei suoi romanzi ricorre questa coppia, una madre bella, sensuale, che emana un vapore fatato, e una figlia sbiadita, fredda. Come se nella riproduzione la potenza materna si indebolisse.

 

Nella mia esperienza la preponderanza della madre è assoluta. O si impara ad accettarla o ci si ammala. Per tutta la vita, nelle circostanze più diverse, il vapore erotico che il corpo materno effondeva solo per noi sarà insieme un rimpianto e una meta. Non ho smesso mai di sentirmi figlia sbiadita, nemmeno diventando madre. Anzi la matassa della doppia funzione è diventata ancora più ingarbugliata. C’è stata una fase in cui ho progettato di raccontare la futura bellissima Elena di Troia come una ragazzina bruttina, piena di terrori animali e schiacciata dal fulgore di sua madre, Leda, amata da Zeus in forma di cigno. Nella “Figlia oscura” sono rimasti i nomi: Elena, Leda vengono da lì.

 

Lei dice che con la sua scrittura cerca di afferrare “la cosa viva”, “ciò che giace silenzioso sul fondo di me”. E’ il rapporto con la madre, che chiede insistentemente di essere raccontato?

Credo di sì. Ho scritto molte storie, negli anni, ma alla fine mi sono sembrate tutte di poca necessità. È stato solo con “L’amore molesto” che ho avuto per la prima volta l’impressione di aver sfiorato qualcosa di coinvolgente.

 

Questa infelicità tra madre e figlia per il pensiero della differenza diventa un punto di leva, una potenzialità. Nella civiltà napoletana, invece, sembra che resti solo infelicità, una malattia mortale di cui gli uomini approfittano.

Non so com’è la madre napoletana. So come sono alcune madri che ho conosciuto, nate e cresciute in quella città. Donne allegre e sboccate, vittime violente, disperatamente innamorate dei maschi e dei figli maschi, disposte a difenderli e a servirli anche se le schiacciano e le straziano, pronte però a pretendere che “anna fa’ l’uommene” e incapaci di ammettere, anche con se stesse, che così li spingono a farsi ancora più bestie. Essere figlie femmine di queste madri non è stato e non è facile. La loro subalternità vitalissima, sguaiata, sofferente, rende difficile sia l’immedesimazione che la ripulsa disamorata. Bisogna scappare da Napoli anche per scappare da loro. Solo dopo è possibile vederne lo strazio di donne, sentire il peso della città maschile sulle loro esistenze, provare il rimorso di averle abbandonate, e imparare ad amarle, a farne, come voi dite, un punto di leva.

 

La madre di Leda minaccia di andarsene. Leda se ne va davvero, realizza il sogno di sua madre. Ma poi torna dalle figlie che ha abbandonato, dice che è stata fortunata ad averci messo solo tre anni a capire

Tornare dalle figlie per Leda significa mettere al centro non il puro e semplice averle partorite, ma la pienezza della maternità. Prima, con la fuga, ha cercato un’emancipazione e il confronto paritario col mondo maschile. Dopo, col ritorno, la sua vita pubblica, il lavoro, i pensieri, gli amori fanno centro sulla prepotenza della funzione materna. Il rischio che Leda corre mi pare tutto nel quesito: io, donna oggi, riuscirò a farmi amare dalle mie figlie, ad amarle, senza dover per forza sacrificare me stessa e perciò detestarmi?

 


La bambola di Elena sembra la custode di una maternità perfetta. Ma nella sua pancia c’è un liquido putrido, un verme: è l’ambivalenza materna che dobbiamo sapere accettare?

Non so. In una prima versione il racconto insisteva molto sulla cruda materialità della gravidanza, del parto. C’erano brani molto duri sul corpo che si ribella, sulle nausee, sul gonfiarsi del ventre, sul martirio iniziale dell’allattamento. Ho attenuato tutto questo. Ma resto convinta che bisogna raccontare anche il versante buio del corpo gravido, sottaciuto per evidenziare quello luminoso, da Madre di Dio. Nel romanzo c’è una donna incinta, Rosaria. È una camorrista senza finezza fisica e nemmeno di pensiero. La sua maternità, per Leda, donna colta, è rozza, ininteressante. Ma proprio dal mondo di Rosaria si srotola un filo di furia. Tendiamo a tenere lontano da noi tutto ciò che ci impedisce coerenza, ma è nell’incoerenza che il racconto deve trovare alimento.

 


Una parola che ricorre nella “Figlia oscura” è “repulsione”. Gli insetti, la cicala, le lucertole, il verme, accentuano la nausea di fondo. Che cos’è, questo repellente?

Per Leda è tutto ciò che rinvia alla nostra natura animale. Il rapporto che abbiamo con la materia vivente non umana è contraddittorio. Gli animali ci spaventano, ci ripugnano, ci ricordano – come la gravidanza quando di colpo ci modifica portandoci molto vicine alla nostra animalità – l’instabilità delle forme assunte dalla vita. Ma poi – molto più dei maschi – li ammettiamo tra le nostre parole, ce ne prendiamo cura come di bambini, cancellando con l’amore lo spavento e il disgusto. Sto provando a raccontare, in questi giorni, una piccola storia al cui centro c’è la repulsione-attrazione femminile per il mondo animale e quindi per l’animalità dei nostri stessi corpi. Mi piacerebbe narrare come una donna si avvicina per amore al repellente della carne, a quelle aree dove la mediazione della parola si fa debole, dove il linguaggio diventa reticente e lascia uno spazio, chiuso tra l’oscenità e la terminologia scientifica, in cui può accadere di tutto.

 

Leda dice a Nina che dal tempo della sua giovinezza a oggi il mondo “era diventato più cattivo verso le donne”

Penso che la spinta all’eguaglianza ci abbia messo in gara con gli uomini ma anche tra noi, moltiplicando la ferocia dei rapporti donna-uomo e donna-donna. La differenza sessuale, repressa in nome di un egualitarismo truccato, rischia di essere ricacciata in vecchi ruoli, o cancellata da noi stesse per opportunismo. Il patriarcato, insomma – lo dico con rabbia – mi pare più vivo che mai. Tiene saldamente il pianeta nelle sue mani e tutte le volte che può si accanisce più di prima a fare delle donne carne da macello. Questo non significa che le verità che abbiamo portato alla luce non abbiano avviato cambiamenti. Ma io scrivo racconti, e ogni volta che le parole sistemano le cose con bella coerenza non mi fido e tengo d’occhio le cose che ignorano la verità delle parole e si fanno i fatti loro. Mi pare che siamo nel pieno di un combattimento durissimo e rischiamo ogni giorno di perdere tutto, anche la sintassi della verità.

 

Le sue protagoniste si muovono su crinali pericolosi, vanno in frantumi, rischiano la dissoluzione per poi ritrovare un’unità più coerente in cui imparano a convivere con i loro fantasmi: sembra il percorso di un’analisi riuscita.

Non sono mai stata in analisi. Ma so cosa significa frantumarsi. L’ho osservato in mia madre, in me, in molte donne. Il processo della frantumazione mi interessa molto dal punto di vista narrativo. Per me significa raccontare, oggi, un io femminile che all’improvviso si percepisce in destrutturazione, smarrisce il tempo, non si sente più in ordine, si avverte come un vortice di detriti, un turbinio di pensieri-parole. Per poi fermarsi bruscamente e ricominciare da un nuovo equilibrio, che – si badi – non è necessariamente più avanzato del precedente e nemmeno più stabile. Serve solo a dire: adesso sto qua e mi sento così.

 

Crede che questo percorso di passione, questo disfarsi nella propria “frantumaglia” per poi ricostituirsi, sia un passaggio inevitabile nella vita delle donne?

Nelle donne a cui mi sono sentita molto vicina lo è stato. In qualche caso mi è sembrato che questo sentirsi a pezzi potesse essere ricondotto a quella sorta di frantumazione originaria che è mettere al mondo-venire al mondo. Parlo del sentirsi madre a prezzo di espellere un frammento vivo del proprio corpo; di un sentirsi figlia come frammento di un corpo intero e ineguagliabile. Leda è il frutto di questa suggestione.

 

Nella sua scrittura è come se i fantasmi e la carne, ciò che avviene, ciò che potrebbe accadere e i ricordi stessero su uno stesso piano, avessero la stessa densità di realtà. Questa è scrittura femminile?

Non so. Sicuramente nella mia esperienza la parola è sempre carnale. Il momento in cui scrivo con maggior piacere è quando sento che la storia non ha bisogno di preamboli e nemmeno di una prospettiva. C’è, è lì, la vedo e la sento, è un mondo tutto di materia viva, di fiato, di caldo e di freddo. Io stessa che scrivo sto con le dita sui tasti del computer e anche, contemporaneamente, nel pieno di quel mondo, e mi lascio portare dal suo vortice liquido che trascina tutto. Col passare degli anni mi sento sempre più vicina all’idea che la scrittura vera sia quella che nasce dall’uscita da sé, da una condizione estatica. Spesso ci si immagina l’estasi come una disincarnazione. L’estasi dello scrivere non è sentire il soffio della parola che si libera della carne, ma la carne che fa tutt’uno col soffio delle parole.

 

Tra le molte identità che le attribuiscono una buona maggioranza è di sesso maschile: riconosce qualcosa di non-femminile nella sua scrittura?

Temo di aver imparato a scrivere divorando soprattutto scrittura di uomini e rifacendola in continuazione. C’è voluto tempo perché apprendessi ad amare le donne che scrivevano. Il femminile dei maschi, devo ammettere, mi attraeva più del femminile delle donne. Madame Bovary, Anna Karenina, quelle sì, mi sembravano vere donne. È probabile che ciò duri in tratti del mio scrivere attuale, ma non credo che il problema sia questo. Bisognerà raccontare, una volta, cosa significa scrivere da donne, cosa significa fare i conti sul serio non solo col maschile, ma con quel femminile dei maschi che ci appartiene e ci abita.

 

Lei ha detto che la sua smania di raccontare si è nutrita anche di ” fondali bassi” come i fotoromanzi. Che cosa ci ha trovato?

Il gusto di avvincere i lettori. Il fotoromanzo è stato uno dei miei primi piaceri di lettrice in erba. Temo che l’ossessione di ottenere un racconto tesissimo mi venga da lì. Non provo alcun piacere a scrivere se non sento che la pagina è emozionante. Una volta avevo grandissime ambizioni letterarie e mi vergognavo di questa spinta verso tecniche da romanzo popolare. Oggi mi fa piacere se qualcuno mi dice che ho scritto un racconto avvincente -per esempio- come quelli di Delly.

Le donne che la leggono parlano spesso di lettura irresistibile ma “disturbante”.

Penso che dipenda dal fatto che, quando scrivo, è come se macellassi anguille. Bado poco alla sgradevolezza dell’operazione e uso la trama, i personaggi, come una rete stretta per tirare dal fondo della mia esperienza tutto quello che è vivo e si torce, compreso ciò che io stessa ho allontanato il più possibile da me perché mi pareva insopportabile. Nelle prime stesure c’è sempre molto più di quanto poi decido di pubblicare. È il mio stesso fastidio a censurarmi. Sento, tuttavia, che a far così non faccio bene e spesso reintegro quello che ho eliminato. O aspetto un’occasione per usare altrove i brani esclusi.

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