10 Maggio 2023
Letterate Magazine

Intervista impossibile a Goliarda Sapienza

di Emi Monteneri


Il 10 maggio 1924 nasceva a Catania Goliarda Sapienza. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà. Scrittrice e attrice, ha lavorato con Luchino Visconti e Citto Maselli, suo compagno per tredici anni. Per celebrare quello che sarebbe stato il suo novantanovesimo compleanno, proponiamo un estratto dal volume collettaneo “Le personagge sono voci interiori”,

dove Emi Monteneri immagina una intervista impossibile a Goliarda Sapienza, a partire dai luoghi e dalle persone della sua infanzia.

Goliarda non è stato un amore a prima vista. L’ho conosciuta con colpevole ritardo. Inizialmente non riuscivo a superare le prime cinquanta pagine de L’arte della gioia: troppi delitti, troppo dolore. Non capivo. Non ero pronta. Poi l’incontro “vero”, che mi ha ricondotta alla lettura del romanzo, cioè a Modesta, legandomi a lei inesorabilmente. Ma l’esplosione amorosa è avvenuta con Io, Jean Gabin. Goliarda mi parlava, e si raccontava, costringendomi a ripercorrere la sua esistenza, e quindi la sua scrittura dove si ricomponeva un sistema che creava mondo, che creava un nuovo senso di vita. Allora ho dovuto superare un senso di colpa divorante: cosa facevo, cosa leggevo mentre lei si dibatteva tra mille difficoltà? Mi dava angoscia scoprire in me la stessa indifferenza, o ignoranza, che ha contraddistinto persone che la circondavano e che non ne hanno scoperto il giusto valore. Il riconoscimento di disparità agiva in me in modo imprevisto e infantile, ma scoprire le fragilità di colei che sempre più si configurava come una “madre simbolica” me la rendeva affettivamente vicina, anche se il tributo alla sua autorità mi imponeva un doveroso distacco.

È stata proprio la scrittura di Goliarda a consentirmi di riequilibrare le distanze e accostarmi a lei per un confronto sereno.

Oggi mi piace ritrovarla nei luoghi della sua infanzia e percorrerli insieme: la Civita, il cinema Mirone… Dialogo dai toni diversi, ora ciarliero, ora pacato, o muto, quasi interiorizzato, seguendo con pensieri sospesi la sua voce resa unica da quella inflessione catanese che tanto la fece penare all’Accademia d’Arte Drammatica, e che adesso fa eco e si dilata dentro di me. Goliarda, scrittrice, attrice e donna di spettacolo si è sempre rivolta al suo pubblico di lettrici e lettori in un dialogo continuo, come con un pubblico teatrale. Goliarda artista poliedrica ma semplice ed essenziale. 
Alla radice della sua arte sta la ricerca inesausta di “purezza” che conduce alla libertà. Goliarda scrittrice e personaggia, mente e corpo della sua scrittura, che porta in giro e mostra sempre la sua essenza di donna libera, la cui origine siciliana, profondamente radicata, non coincide mai con alcuno stereotipo, che, anzi, irrispettosa, nella vita come nella scrittura, di tutti gli schemi preordinati, rompe e attraversa tutti i modelli stereotipati. Lei “odia” – come si può odiare un nemico, o, ciò che è lo stesso, un ostacolo alla libertà dell’esistenza – tutte le manifestazioni di miseria femminile: vittimismo, rinuncia, dipendenza affettiva e materiale, mansuetudine, e, come fa Virginia Woolf con l’angelo del focolare, semplicemente “le uccide” perché mortifere e indegne della grandezza femminile. Grandezza che lei riconosce alla sua magnifica e inafferrabile madre, la socialista rivoluzionaria Maria Giudice. In tutti i romanzi di Goliarda Sapienza, almeno in quelli che ho letto, individuo una ricerca ed un omaggio continuo alla grandezza materna, a partire da quella della propria madre.

La madre e la galera, argomenti non tanto lontani come potrebbero sembrare, saranno i temi brevemente trattati in questa “intervista impossibile”.

Ma ecco Goliarda mi/ci parla, attraversando il tempo e giungendo a noi con la ricchezza del suo pensiero e dell’amore di vita che trasmettono sempre le sue parole.

Goliarda Sapienza è nata a Catania nel 1924 e morta a Gaeta nel 1996. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà.

A partire dai sedici anni visse a Roma, dove studiò all’Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta recitò come attrice di teatro e di cinema, lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti, Citto Maselli, di cui fu la compagna per tredici anni. Al suo primo romanzo, Lettera aperta (1967), seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L’Università di Rebibbia (1983), Le certezze del dubbio (1987) e, postumi, L’arte della gioia (1998), romanzo di tutta una vita, a cui si dedicò per oltre dieci anni senza trovare alcun editore disposto a pubblicarlo; i racconti Destino coatto (2002), il romanzo Io, Jean Gabin (2010), Il vizio di parlare a me stessa (2011), raccolta significativa di appunti tratti dai suoi numerosi e famosi taccuini.

Intervistatrice: Che bello il tuo nome, Goliarda, bello e raro.

Goliarda: Mi hanno messo nome Goliarda. Mio padre me lo mise, essendo ateo, perché era un nome senza santi. Con questo nome, da bambina, mi sentivo sola: non c’era nessuna Goliarda o Goliardo in tutta Catania e, per me, in tutto il mondo. Cominciai a dire che mi chiamavo Maria: era il nome di mia madre, e quindi non doveva essere un furto troppo rilevante.

I.: Grande famiglia, la tua.

G.: Mio padre, l’avvocato Sapienza, era un socialista con il vizio dell’assistenza. I più lerci delinquenti lui li raccoglieva all’uscita dal carcere e li sistemava o a casa propria o in qualche ufficio così noi avevamo sempre qualche avanzo di galera che puliva i vetri, lucidava le scarpe o accendeva il fuoco. Anche donne. La nostra Tina, per esempio. Aveva una voce dolce e cucinava favolose frittate, ma nella sua giovinezza gloriosa aveva ucciso a colpi di lupara, mentre facevano l’amore, il fidanzato e la sorella. E poi c’era Zoe che di tanto in tanto la sostituiva e di notte si aggirava con un coltellaccio nascosto in seno. Aveva ucciso, a coltellate, la madre e ferito il fidanzato.

I.: E i tuoi fratelli?

G.: Ogni tanto venivano i fascisti a strapazzarli un po’ e papà correva in questura per farli rilasciare, ma quando zoppicando tornavano a casa, trovavano pronto brodo, bollito, e una bella bistecca da mettere sull’occhio nero. Troppe ne ho viste di queste visite.

I.: Il quartiere della Civita, denso di storia e di misteri, ti ha vista attraversarlo spavalda, imitando il passo di Jean Gabin, il tuo eroe. Oggi della Civita, cioè il quartiere di S. Berillo, sventrata nel 1954, resta ben poco.

G.: Quello che non hanno fatto i fascisti, lo hanno fatto i democristiani. La Civita, di notte, quando i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata e nera, e cominciava a risonare di gemiti, grugniti, fiati lunghi di serpenti, meduse e melusine…

I.: Dove abitavi?

G.: In via Pistone. Di notte c’era sempre una scusa per far baldoria. La gente attiva, piena di vita, magra e scattante, insomma, antifascista, dorme poco e non si annoia mai. E se qualcuno del palazzo osava replicare, allora la lama del mio stocco verbale usciva dal legno a graffiare: non viviamo di marcia rendita borghese, noi! Né lasciamo che il Duce o un santo qualsiasi pensi a noi. Prova a vivere libero, e vedrai il tempo che ti resta per dormire.

I.: Come vissuto la tua infanzia? Andavi a scuola?

G.: I miei genitori non volevano che frequentassi la scuola fascista. La mia divisa di piccola italiana è stata bruciata sul terrazzo. Passavo lunghi pomeriggi al Cinema Mirone o all’Arena Bellini. In fondo a casa preferivano sapermi al sicuro dentro un cinema, al riparo dalle incursioni fasciste che devastavano la nostra biblioteca. È lì che ho visto La regina Cristina con Greta Garbo. Lì ho conosciuto Charlot, artista anarchico e libertario, lì ho cominciato a identificarmi in Jean Gabin, l’eroe della Kasbah.

I.: Ti conosco solo attraverso i tuoi libri, in cui esprimi un forte bisogno d’amore.

G.: Senza sale l’organismo muore, e in fondo non è grande danno, ma senza amore si diventa assonnati, fragili, avari, larve d’uomo. Ma non era facile parlarne in famiglia. Tutti a casa mia, anche le donne, erano contrarie a quella parola da donnette. L’unica ad ammettere che l’amore era degno di essere preso in considerazione era mia madre, ma la faceva così complicata! Doveva essere un amore libero da convenzioni, da ricatti psicologici o finanziari… Insomma era meglio stornare il discorso sulla Grecia antica, la politica o la filosofia…

I.: Tua madre, Maria Giudice! Grande intellettuale rivoluzionaria.

G.: Su Maria non mi soffermo perché, come mio padre, è conosciutissima: era stata pure lei in galera per il bene degli oppressi. Studiava, e allora dovevo studiare anch’io per diventare come lei. Ecco la donna che Jean non avrebbe potuto non amare, se l’avesse incontrata. È stato mio fratello Ivanoe che si è preso cura di me in modo materno. La zia Grazia si indignava: Povera figlia, che unghie! Non è possibile che tua madre non te le tagli mai! Diceva. Oh, ma che razza di mutandoni porti? Sembri incinta, povera figlia! È possibile che tua madre… Mia madre chi? Rispondevo. Ivanoe? Ma Ivanoe deve dare tre esami…

I.: Ma come ti vedevi, cosa volevi realizzare da grande?

G.: La mamma mi diceva: potresti diventare medico, avvocato, come tuo padre: preparati a diventare sindacalista come me, per quando il fascismo finirà.

I.: Lei in fondo era la tua difesa da un destino di donna chiusa in casa a fare figli, di una donnetta come diceva lei.

G.: Quando ho saputo che alla mia amica Nica era venuto il sangue e doveva stare a casa ad aspettare un marito, ho avuto orrore. Mi chiedevo se veniva a tutte le femmine. Anche mia madre l’aveva? Mia madre non aveva detto sono donnette che non sanno fare altro che aspettare un marito? E aveva anche detto tu Goliarda, non sei una donnetta. Infatti io non volevo un marito, ma un compagno, come lei…Sarei stata come mia madre e se non aspettavo un marito, il sangue non sarebbe venuto.

I.: Tu hai sempre manifestato distacco nei confronti di figure, legate alla tradizione del sud, che rimandano un’immagine di miseria femminile.

G.: Sono modelli pericolosi per le donne, ma anche per tutta la società. Donne come la signora Bruno, sacco nero sformato che apre la porta di casa con le mani umide di farina, che prega o frigge; o come la madre di Modesta che urla o tace; o come madre Leonora, la superiora del convento, che ricamava e pregava perché abitua all’umiltà e all’obbedienza. Diventerò anch’io una dotta? Domandavo. Pazzerella che sei! A che ti servirebbe se sei una donna? Rispondeva. La donna non può arrivare mai alla sapienza dell’uomo.

I.: Tua madre è stato per te il più straordinario modello di forza femminile. Mi chiedo quanta di questa forza contenga la tua personaggia Modesta.

G: Maria Giudice fa una fugace apparizione in L’arte della gioia, la cito tra le donne di riconosciuta autorità della nostra storia. Modesta ha la forza che conduce alla libertà, è il sogno realizzato di una vita libera.

I.: Ma l’equilibrio psichico di tua madre crollerà.

G.: Pazzia… Le è scoppiata tra le mani proprio quando il suo nemico cadde distrutto. Cadendo lui, si ruppe la tensione per la quale aveva vissuto estraniandosi da se stessa.

I.: L’hai assistita nella sua malattia per tre anni.

G.: Diventai madre di mia madre. Ora provo grande rimorso, ma mi vendicavo facendole vedere come si cura una figlia, lei che occupandosi solo della mia mente, mi aveva trascurata in tutti i modi.

I.: La fine tragica, segnata dalla pazzia, ha contraddistinto donne forti e autorevoli.

G.: Penso a Virginia Woolf suicidatasi dopo avere scritto Orlando: come può stare vicina a quest’atto assurdo tanta freschezza e fantasia gioiosa: cosa l’ha tradita? Io so cosa. Ha pagato il suo osare entrare tra i grandi senza tradire il suo essere donna. Spero di farlo anch’io col tempo. La follia sembrerebbe quasi un porto per tutte le donne che falliscono; allora perché anche per Virginia e per mia madre lo è stato? Probabilmente la loro riuscita non appagava il tribunale antico di donna che le giudicava traditrici per aver osato uscire dai limiti concessi. Per loro era una condanna che le faceva sentire in colpa e le rendeva infelici anche mietendo grandi successi. Quanto a me, probabilmente non diventerò mai pazza, ma disertrice mi sento già.

I.: Sei stata in carcere per un breve periodo. Che avevi fatto?

G.: Ti rispondo come a Giovannella, una piccoletta incinta incontrata a Rebibbia: sai cosa ho fatto per finire qui? Un lungo viaggio in Russia e in Cina che ha spazzato quel poco d’etica che mi era rimasta… Da dodici anni non riuscivo più a pubblicare una riga; per dieci anni ho lavorato a un lungo romanzo e nel frattempo tutto cambiava: amici, situazioni, rapporti. Ero scivolata da ultimo in un ambiente pseudo-libero, pseudo-elegante, e così ho rubato a una di queste pseudo-signore per punirla. O per punirmi? Insomma un bell’acting-out da manuale.

I.: In carcere hai imparato in fretta, suppongo.

G.: Lì sai subito chi sarai nella vita, non ti è concesso crogiolarti nel falso problema di cercare la tua identità. Non c’è differenza fra dentro e fuori. Le donne conosciute sono comuni, come quelle che si incontrano per strada. Il carcere è sempre stato la febbre che rivela la malattia del corpo sociale: continuare ad ignorarlo può farci ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista.

I.: La tua ricerca di verità cosa ti ha fatto scoprire in carcere?

G.: Queste donne conoscono l’arte dell’attenzione all’altro, sanno che dalla condizione di una dipende quella delle altre: attenzione e solidarietà a chi ti è amica, ostruzionismo a chi ti è nemica. Impossibile trovare sfumature in questo consorzio: lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi del profondo. Questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque può imparare il linguaggio primo.

I.: Credi ancora che tenersi stretti al sogno sempre, e sfidare anche la morte per non perderlo mai, come affermi in Io, Jean Gabin, sia l’unica via possibile?

G.: Sento ancora la sua voce: La vita è lotta, ribellione e sperimentazione, di questo ti devi entusiasmare giorno per giorno e ora per ora. Vedi me, sono morto tante volte combattendo, eppure sono qui con te tranquillo a ricordare e gioire delle mie lotte, pronto a rinascere e a ricominciare…

questo è il segreto … da lui solo sgorga quella che comunemente chiamiamo Vita.

I.: Ti ringrazio Goliarda per la tua grandezza che arricchisce tutte e tutti noi e per quel grande amore di vita che trasmettono sempre le tue parole.


Estratto a cura di Emi Monteneri in “Le personagge sono voci interiori” a cura di Gisella Modica. Vita Activa, Trieste, 2016


(Letterate Magazine, 10 maggio 2023)

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