12 Novembre 2020

Invidia e amore nell’esperienza dell’eccedenza femminile

di Chiara Zamboni


L’eccedenza femminile – quell’impossibilità di stare e acquietarsi dentro i limiti – ha un legame con il rapporto senza confini che una donna ha con la propria madre. Un rapporto che si altalena tra amore e odio, quando rimane senza forma, e che può trovare a volte forme, che però poi vengono perse e riguadagnate.

Inizio a parlarne a partire da Invidia e gratitudine di Melanie Klein. La concezione dell’esistenza di Klein è drammatica, tragica: quanto più si ama, tanto più si è portati ad attaccare e distruggere ciò che si ama, soprattutto attraverso l’invidia, ma anche attraverso l’avidità e la maldicenza. E questo crea un paradosso che sembra non avere soluzione se lo si vive nella sua immediatezza1.

Ora per la Klein questo ha a che fare con la prima esperienza avuta con la madre con la quale c’era l’amore per il bene ricevuto e contemporaneamente il desiderio di distruggere questa fonte di bene a causa di pulsioni mortifere.

Nella Klein, ancor di più che nei testi di altri psicoanalisti, risulta chiaro come i sentimenti siano qualcosa che non si rinchiude nel cerchio circoscritto della soggettività e perciò secondari rispetto all’andamento oggettivo del mondo, ma rappresentino il segnale delle relazioni ontologiche che noi viviamo. Il conflitto innato tra amore e odio, tra istinti cli vita e istinti di morte, che proviamo, segnano il nostro rapporto con gli altri e dunque il modo di darsi a noi dell’essere relazionale.

Si possono leggere i suoi testi e la sua esistenza alla luce della differenza sessuale: il primo e più importante segno è che Melanie Klein era una madre e una donna e perciò non a caso ha accentuato, rispetto a Freud, la centralità del rapporto dei piccoli con la madre2. Del resto nei suoi primi casi clinici lei ha preso in esame proprio il figlio e la figlia. Ed è da leggersi alla luce della eccedenza femminile anche il conflitto tra lei e la figlia Melitta, a sua volta diventata psicoanalista da adulta.

A me pare abbia a che fare anche con la differenza femminile il fatto che la Klein abbia riflettuto soprattutto sull’invidia nei confronti della madre e abbia allargato poi questa invidia a coloro che amiamo nel corso della vita.

Il fatto è che l’invidia è certo una passione sia di donne che di uomini, tuttavia nelle donne ha un che di illimitato e senza fondo più evidente.

Donatella Borghesi in Specchio specchio delle mie brame ne fa una questione di fine di patriarcato. Sostiene che, se nel patriarcato la misura femminile è stata soprattutto l’uomo e quindi la gelosia il tono del rapporto tra donne in lotta tra loro per lo sguardo maschile, tutt’altra cosa è nel post-patriarcato. Nell’indebolimento dell’autorità maschile la misura risulta di frequente essere un’altra donna, e dunque l’invidia, per ciò che più si ama in un’altra, è diventata la passione più profonda3. Prima l’uomo risultava dunque un punto di riferimento terzo nello specchiarsi reciproco, ma ora non lo è più e nell’invidia le donne si confrontano direttamente.

A me sembra che, ancor prima che sociale, sia simbolica la posizione delle donne tra loro, e che la passione più profonda dell’invidia nelle donne dipenda dal loro essere dello stesso genere della madre. Se la madre è oggetto d’amore e di odio sia per le donne che per gli uomini, negli uomini c’è poi la differenza sessuale che pone una distanza. Ed è una distanza preclusa in questi termini alle donne perché sono simili alla madre. Di qui la maggiore distruttività di questo sentimento per le donne.

Chi è gelosa compete per appropriarsi dell’amore che l’altra possiede. Chi invidia distrugge il tesoro che nell’altra ama.

Una delle possibili mosse di chi invidia è riportare l’altra all’essere come tutte, togliendole l’aura di ciò che di speciale l’attrae in lei. Significativa in questo senso una vignetta di Claire Brétécher: Santa Teresa, catturata dall’amore di Dio, levita, si innalza e le piccole suore amorevolmente la riportano a terra. La riportano alla loro altezza. Perché così non si fa. La tirano giù preoccupate, prendendola per i piedi. È come dire: l’invidiosa è tutta impegnata a riportare l’altra alla normalità. Una normalità in cui siamo tutte uguali, terra terra, senza grandi pretese, sapendoci accontentare. Nel calore della somiglianza, nel tran tran grigio, con la piega della bocca un po’ all’in giù4.

Nel riportare l’altra alla normalità c’è anche la paura per qualche cosa di inconcepibile che cogliamo in lei, di un’eccedenza, appunto. C’è una enormità che meraviglia, che nel profondo stupisce e ci cattura. Ci porta fuori di noi per una risonanza che avvertiamo in noi. In fin dei conti l’invidia è un ammirare andato a finire male, che non ha saputo seguire ad aprirsi.

E in questo si può osservare tutta l’ambivalenza dell’invidia. Invidiamo l’altra perché c’è in lei qualcosa che porta noi a farcene sedurre. Ad uscire da noi stesse per qualcosa che ci trascende e che allo stesso tempo ci appartiene perché se ci attrae vuol dire che qualcosa di noi annuisce ad essa.

È interessante che Hannah Arendt scriva in una lettera a Mary McCarthy: «Il vizio principale di ogni società egualitaria è l’Invidia […] e la grande virtù di tutte le aristocrazie mi pare risieda nel fatto che la gente sa sempre chi è e quindi non fa paragoni con gli altri»5. Vorrei si facesse attenzione all’aspetto per cui per Arendt colui che sa chi è non prova invidia. Sapere chi si è implica non aver bisogno di confrontarsi in modo ossessivo con gli altri. Tuttavia vien da aggiungere che in una società di massa il paragonarsi agli altri e l’invidiare sono elementi costitutivi. Invidiando, ci si appoggia sostanzialmente sull’altro, sull’altra per conoscere se stessi. Al medesimo tempo si rivendica l’eguaglianza proprio per cancellare l’in più che l’altra ha. Ci si impedisce in questo modo di attraversare il sentimento dell’invidia, che ci può dare una luce su noi stessi.

L’ambivalenza dell’invidia porta a distruggere l’alterità, in cui è custodito il tesoro amato da chi invidia, eliminandola nell’eguaglianza. Eppure ha bisogno, per orientarsi, proprio di tale alterità6.

Sembrerebbe a prima vista una figura simile a quella del servo padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel. La somiglianza sta nel fatto che anche nella figura di Hegel si tende a distruggere una dipendenza di cui si ha bisogno per esistere.

Nella dialettica servo padrone, tuttavia, è in gioco il riconoscimento dell’io: si tende a distruggere proprio quell’io che può riconoscerci. Nella figura paradossale dell’invidia più che l’io è in gioco il tesoro amato: distruggo esattamente la fonte di ciò che amo, l’origine di ciò che mi potrebbe far conoscere l’orientamento trascendente della mia vita, se l’attraversassi con sapienza.

In questo senso l’invidia è un sentimento del tutto inscritto nella dualità immaginaria, ma che può diventare percorso simbolico, farsi pensiero se, invece di rimuoverla come un cattivo sentimento, se ne coglie i raggi di apertura.

Questo ragionamento simbolico è possibile perché la Klein insegna che dietro l’invidia c’è la fonte di un amore che ho ricevuto e che ho sentito seducente. Un amore che ha avuto una potenza che non poteva essere regolata. E il paradigma di tale amore intenso è quello della madre, che abbiamo sperimentato nell’infanzia come potenza infinita per la grande dipendenza da esso.

Il guadagno teorico che si può ricavare da Klein è che la distruttività dell’invidia ha alle spalle l’amore troppo forte per la madre. Una l’ombra dell’altro. In più abbiamo aggiunto che le donne vivono l’invidia con più intensità per la prossimità maggiore nei confronti della madre e per una loro inclinazione relazionale che dà minore importanza all’io e alla sua separatezza.

Proprio perciò è soprattutto tra donne che l’invidia è distruttiva. Essa si inscrive all’origine tra la madre e la figlia e poi per estensione al rapporto con altre. Allora essa può bloccare in una condizione indefinita, amorfa, cieca a se stessa e angosciante. Può però anche inquietare positivamente, mostrare percorsi di modificazione. Non solo: far affiorare quanto carnali e profondi siano i legami con la madre e con l’altra donna e come l’identità dell’io non sia per le donne una delle passioni più sentite.

In questo senso, seguendo le sfaccettature dell’invidia e dell’amore di cui essa è ombra, si mostra l’altra faccia di una realtà che l’ideologia dominane neoliberista vorrebbe fondata sull’identità e l’autonomia dell’io, sulla libertà individuale che si otterrebbe tagliando i legami con l’origine.

Se si segue la strada di attraversare l’invidia invece di superarla, risulta troppo frettolosa e non ben meditata la contrapposizione ad essa della gratitudine per riparare i danni che le aggressioni dell’invidia hanno provocato. Si tratta della soluzione che la stessa Klein propone. Scrive: «Quando si è in grado di provare gratitudine – e questo significa che in quel momento si è meno invidiosi – ci si viene a trovare in una situazione più favorevole. […] Il bisogno impellente di riparare e di aiutare l’oggetto invidiato sono anche degli strumenti molto importanti per controbilanciare l’invidia. In definitiva questo vuoi dire controbilanciare gli impulsi distruttivi mobilitando sentimenti di amore»7. In questo brano è evidente la contrapposizione tra impulsi di amore e pulsioni distruttive, che sfiora il manicheismo ontologico. È questo il limite di Klein.

Al contrario sostare presso il negativo, accompagnarlo, non combatterlo o risolverlo, permette di guardarlo, di osservarne le movenze, di farne pensiero e di arrivare ad una diversa posizione rispetto a quella della pura contrapposizione con il positivo8. È appunto accogliendo l’invidia in tutte le sue sfaccettature ambivalenti – che sono di distruzione, certo, ma anche di tensione verso l’altro da sé, verso ciò che ci seduce per amore – che si può coglierne un aspetto pericoloso e al medesimo tempo interessante dei legami tra donne. E vederne la presenza in una politica fondata sulle relazioni, che è al centro della politica delle donne.

In questo senso accettare l’invidia è fare spazio simbolico ad un elemento ambiguo che è parte integrante del reale. In noi e fuori di noi allo stesso tempo. E si tratta non solo dell’invidia che noi proviamo verso altre, ma anche di quella che altre provano nei nostri confronti. L’invidia è potentemente relazionale: una donna non può veramente e del tutto distruggere ciò che ama nell’altra perché distruggerebbe in qualche modo se stessa, tanto è potente la relazione d’invidia-amore. In questo senso l’essere, che è relazionale, trova nell’invidia un surplus di relazione, se pure andata a male.

Mi vorrei fermare brevemente su una delle modalità che prende l’invidia, che così potentemente si è presentata nelle relazioni tra donne anche perché molto mascherata, cioè poco riconoscibile come passione distruttiva. Mi riferisco alla idealizzazione che una donna fa di un’altra: il portarla su di un piedistallo, il vederne soltanto l’eccezionalità, l’isolarla nella sua perfezione.

Melanie Klein ne parla in termini psicoanalitici, ma mi sembra chiari: «I bambini che hanno una grande capacità di amare non sentono il bisogno di idealizzazione quanto quelli che hanno un’enorme quantità di impulsi distruttivi e di angosce persecutorie. L’idealizzazione eccessiva sta ad indicare che la spinta prevalente proviene dalla persecuzione. […] L’oggetto idealizzato è molto meno integrato nell’Io dell’oggetto buono perché è originato più dall’angoscia persecutoria che dalla capacità di amare. […] Le persone che sono riuscite a costituire il loro oggetto buono primario con relativa sicurezza sono in grado di conservare l’amore per l’oggetto pur riconoscendone i difetti; quando questo non avviene, invece, i rapporti di amore e di amicizia sono caratterizzati dalla idealizzazione. Questa però tende a crollare, e allora l’oggetto amato deve essere sostituito spesso, perché nessun oggetto può soddisfare pienamente l’aspettativa»9.

Così non c’è idealizzazione e invidia aggressiva quando si ha stima dell’altra e al medesimo tempo si è tolleranti nei confronti delle sue fragilità, incertezze. Allora il legame è vivo e reale.

Forse in più rispetto a questo è il fatto che nell’attacco aggressivo a un’altra donna c’è la ricerca in lei di una perfezione, che si vorrebbe incarnata nell’altra desiderandola anche per sé.

Nella politica delle donne molto ha giocato l’idealizzazione di alcune donne. Sono state considerate grandi, e giustamente, però ne ho poi visto la denigrazione al minimo accenno di inadeguatezza, fragilità, imperfezione. Ho in mente in particolare Luce Irigaray, che è una delle più importanti filosofe europee legate al pensiero della differenza. Negli anni passati non è stata solo apprezzata ma anche idealizzata, isolandola come “la filosofa” la cui produzione di pensiero veniva comunque idolatrata. Questo atteggiamento è sintomatico. Come è sintomatico che, nel giro di conferenze tenute ultimamente in Italia, quelle donne, che l’avevano innalzata esageratamente negli anni precedenti, non le perdonassero la naturale fragilità che viene dall’invecchiare e restassero perciò sorde alle proposte di riflessione che nelle conferenze lei offriva.

La Klein parla di gratitudine come un sentimento che ripara l’invidia. Che permette cioè di sopportare la colpa che si prova10. Questo è senz’altro vero. Tuttavia insisterei sul fatto che la gratitudine è un sentimento che ha la stessa radice dell’invidia: l’amore per qualcosa di valore che aggrediamo quando invidiamo e di cui rendiamo grazie nella gratitudine.

A me sembra che la gratitudine non sia un semplice dire grazie, né un opporsi agli elementi distruttivi11. Piuttosto, nel suo aspetto creativo, rilancia l’elemento di valore che si ama. Quel di più che è fatto oggetto delle aggressioni invidiose. Non penso in altri termini alla gratitudine come ad un atteggiamento che salda i conti di un senso di colpa, bensì come all’aprire creativo di percorsi nuovi a partire da ciò che si ama nell’altra donna e che ha risonanza in noi stesse.

Penso ad esempio alla mia possibile invidia verso una grande filosofa. La gratitudine verso il suo pensiero non è nel riconoscimento formale nei suoi confronti ma nel rilanciare la scommessa del pensiero, che può seguire altre strade dal suo, ma che nell’intenzione le è fondamentalmente fedele.

Con Diotima – la comunità di filosofica femminile con la quale collaboro – stiamo riflettendo sul lato oscuro del rapporto tra donne e come questo lato oscuro abbia a che fare con il legame senza limiti con la madre, di cui l’invidia è uno degli aspetti.12

Molto agire politico nello spazio pubblico si basa sulla contrattazione continua tra donne, e tra donne e uomini. Una negoziazione che ha come primo esempio il linguaggio stesso: luogo pubblico, che circola senza che lo possiamo controllare, che ci parla, e che noi parliamo, mettendoci d’accordo, entrando in contrasto, rivelandoci agli altri13. Tuttavia non tutto è contrattabile: c’è un residuo consistente, che prende una importanza simbolica particolare nel rapporto tra donne a causa del legame senza limiti con la madre.

Che avviene nello spazio pubblico delle passioni non addomesticate? Che succede a quegli strati di esperienza che si sottraggono alla negoziazione perché rimangono senza limiti? Una contrattazione infatti ha per sua caratteristica quella di riconoscere implicitamente quanto di sé e delle proprie passioni mette in campo l’una e quanto l’altra. Viene delimitato un “proprio” da scambiare con altro. Ma là dove questo non è possibile? Dove c’è qualcosa di non scambiabile? Che farne? Che fare?

Paradossalmente è proprio questo indefinito tra donne che rende la presenza femminile nello spazio pubblico sempre eccedente il modello dell’emancipazione. Mai adattabile a regole pensate da uomini per uno scambio pubblico tra uomini.

Certo è faticoso ragionare sul lato negativo dell’esperienza – quel lato che non si risolve completamente nelle pratiche a disposizione. Eppure è questo lato in ombra, proprio in quanto impedisce l’omologazione, ad essere anche il terreno per aprire contraddizioni nello spazio pubblico dove donne e uomini sono.

La negatività che passa attraverso il materno nel suo lato oscuro: accoglierla, darle parola fa balzare allo sguardo livelli di vissuto grezzi, non mediati né mediabili. Elementi di differenza femminile non addomesticata in contesti che non la prevedono. Così è per certa invidia tra donne, sulla quale l’ombra della madre getta un che di inquietante.

In questo modo si riesce a dire la verità di spazi pubblici che rimuovono l’aspetto oscuro del femminile e per questo divengono finti. È una pratica che scompiglia una scena falsamente neutra. E inquieta nel senso originario di mettere in movimento, aprire contraddizioni in luoghi che vorrebbero colmarle. Starà poi a ciascuna in situazione scegliere la via più adatta per farne una leva di trasformazione e di guadagno politico.

Il fatto è che, come scrive Luisella Brusa in Mi vedo riflessa nel suo specchio, il legame reale e non immaginario della figlia con la madre è niente allo sguardo del simbolico maschile e al medesimo tempo è attraversato da pulsioni che sono dell’ordine dell’essere14. Possiamo attraversare questo essere senza limiti sapendo del pericolo che corriamo, ma anche della necessità di questo passaggio, affinché la differenza femminile trovi forma. E il desiderio di stare con verità e dirompenza nello spazio pubblico ci porta a tenerne conto nella pratica.


(Tratto da Marisa Forcina, a cura di, Tra invidia e gratitudine: la cura del conflitto, Milella, Lecce 2006, pp.201-208)


1 Cfr. Melaine Klein, Invidia e gratitudine, trad. it. di Laura Zeller Tolentino, Martinelli, Firenze 1985, pp. 13-34.

2 Su questo aspetto si ferma Julia Kristeva. Le génie féminin. Melanie Klein, Gallimard, Paris 2000, p. 47 e pp. 73-77.

3 Cfr. Donatella Borghesi, Specchio, specchio delle mie brame. Luci ed ombre dellinvidia tra donne, LaTartaruga, MiIano 2000, pp. 16-17.

4 La vignetta è riportata alle pp. 80-81 del libro citato.

5 Hannah Arendt e Mary McCarty. Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarty 1949-1975. trad. it. di Amineh Pakravan Papi, Sellerio, Palermo 1999, p. 310.

6 Pagine molo belle sull’invidia come sentimento fondamentalmente duale e legato ail’alterità e al senso di sé sono state scritte da María Zambrano. Cfr. María Zambrano. Luomo e il divino, trad. it. di Giovanni Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma 2001, cap. “L’inferno terrestre: l’invidia”.

7 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. p. 90.

8 In questo senso va la tesi di fondo del testo Aa.Vv., Diotima. La magnifica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.

9 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. pp. 39-40.

10 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. p. 90.

11 Della riconoscenza nei confronti della madre parla in termini simili a quelli della gratitudine anche Luisa Muraro, Lordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 66.

12 Si veda a questo proposito il grande seminario dell’autunno 2005, intitolato Lombra della madre, le cui linee generali di proposta si possono leggere nel sito www.diotimafilosofe.it.

13 Sulla negoziazione tra donne e uomini si è fermata la relazione di Françoise Collin, sostenendo che essa non è estensibile a tutto, che porta con sé un residuo. In questo stesso libro è pubblicato il suo intervento.

14 Cfr. Luisella Brusa, Mi vedo riflessa nel suo specchio. Psicoanalisi del rapporto tra madre e figlia, Franco Angeli, Milano 2004, pag. 83.

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