20 Marzo 2008
CORRIERE DELLA SERA

Invidia tra ebrei: la colpa che segnò l’infanzia di Irène

La Némirovsky nella Kiev benestante
Bossi Fedrigotti Isabella

I cani e i lupi, che esce ora da Adelphi (pagine 270, 18,50) è l’ ultimo romanzo pubblicato in vita di Irène Némirovsky, un attimo prima che le leggi razziali glielo proibissero. E, mentre il suo più famoso, Suite francese, grazie al quale la scrittrice è stata riscoperta tre anni fa, racconta in chiave indirettamente autobiografica le peripezie di un gruppo di persone in fuga attraverso la Francia occupata dai nazisti, questo narra, in chiave altrettanto indirettamente autobiografica, le vicende di una bambina e poi di una ragazza ebrea nata in una città dell’ Ucraina e poi rifugiata a Parigi. È dunque, questo, il romanzo del suo passato, delle radici ebraiche, che hanno segnato la sua esistenza e il suo destino. La famiglia, come del resto, suggerisce il nome, veniva da Nemirov, nel cuore yiddish dell’ Ucraina di antica tradizione chassidica. Lei stessa era nata e aveva trascorso l’ infanzia a Kiev, non nella città bassa dei bottegai e prestasoldi, bensì in quella alta, dove ricchi russi ed ebrei vivevano fianco a fianco, perché suo padre, Leon, dopo essere stato un prospero commerciante, si era trasformato in banchiere, uno dei più potenti e temuti di tutta la Russia, tanto che a un certo punto si trasferì, assieme ai suoi, nella capitale, Pietroburgo. Della madre si sa solo che era mondanissima, poco interessata alla figlia e che arrivava, per potersi abbassare l’ età a suo piacimento, a negarne perfino l’ esistenza. Però si apprendono molti più dettagli su di lei leggendo un altro romanzo indirettamente autobiografico di Irene, Jezabel, tragica storia di una donna forsennatamente impegnata a sembrare giovane, al punto da nascondere l’ identità della figlia facendola passare per una parente accolta per carità in casa. Ada, la protagonista de I cani e i lupi, la madre semplicemente non ce l’ ha, bensì soltanto il padre che, in quanto modesto bottegaio, vive nella parte bassa di una città ucraina, in poche stanze squallide sopra il misero negozietto, dove gli scarafaggi, segno di benessere, vengono lasciati passeggiare indisturbati, e dove le finestre vengono pulite solo una volta all’ anno perché la grassa domestica russa ha ben altro da fare dietro la sporca tenda della cucina, e cioè mormorare preghiere segnandosi ripetutamente alla maniera ortodossa oppure ricevendo i suoi numerosi amanti. Da quelle stanze Ada, assieme al cuginetto Ben, ascolta i rumori sinistri dei pogrom che, periodicamente, sconvolgono il quartiere: le strilla, le fughe in strada, gli schianti dei vetri infranti e delle porte abbattute, il ruggire delle fiamme. Ed è proprio uno di questi pogrom che porterà i due bambinetti, sorpresi in strada dalle violenze, a cercare rifugio nella città alta, tra le sontuose ville, in casa di un famoso banchiere, cugino alla lontana del misero bottegaio. Difficilissimo, poi, tornare giù in basso, alla normalità sporca e fredda, lontano dal lusso caldo e luminoso della dimora dei parenti. Né consola più di tanto il fatto che costoro sono impegnati a far fiorire almeno un poco i commerci dello squattrinato cugino: anche perché arriva presto il tempo della precipitosa partenza del banchiere per la Francia, dove si stabilirà con tutti i suoi soldi. Allo scoppio della rivoluzione russa, toccò emigrare anche alla famiglia Némirovsky, particolarmente invisa ai bolscevichi, prima in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia, a Parigi, dove Irène si iscrisse alla Sorbona e cominciò, diciottenne, a scrivere. Il suo primo romanzo, David Golder, è del 1929, e segnò l’ inizio della sua fortunata carriera letteraria. Fortunata ma breve: undici anni dopo, infatti, quando a suo marito (ebreo e banchiere esattamente come il suocero) fu proibito di andare al lavoro e a lei di pubblicare, i due si nascosero in campagna, a Issy-l’ Eveque, assieme alle figlie. Nel ‘ 42 furono arrestati entrambi e deportati ad Auschwitz dove morirono a pochi mesi di distanza. Si salvarono le bambine, nascoste in casa della domestica che, quando uscivano – ricorda, ormai anziana, la maggiore – sempre si raccomandava di nascondere nello scialle il gran naso di famiglia. Perché due persone colte, abbienti, informate sugli avvenimenti non avevano pensato di scappare, come molti altri avevano fatto, in America per esempio? Perché – è sempre la figlia che ricorda – troppe case Irene era già stata costretta ad abbandonare nella sua non tanto lunga vita. Nel romanzo, i cani e i lupi non stanno tanto a indicare i buoni e i cattivi, perché a turno gli uni e gli altri sono buoni o cattivi, bensì gli inseguiti e gli inseguitori. Cani sono, dunque, i benestanti inquilini della città alta che fuggono, sì, dai rivolgimenti politici ma, ancora di più, dalla miseria che loro stessi in passato avevano ben conosciuto, incarnata, orribilmente visibile e tangibile, da quei cugini magri e laceri e da tutti quelli come loro, la cui povertà risulta notoriamente contagiosa: dalla minaccia, dunque, di potere, un giorno, ricadere indietro nell’ antica condizione di ebrei pezzenti. Inseguitori sono Ada, Ben e un’ ambiziosa zia che, sospinti dall’ illusione di una vita migliore, dalla voglia febbrile di bellezza ed eleganza, si trasformano in lupi gettati sulle tracce dei parenti ricchi, per cui a loro volta espatriano e si sistemano, sia pure in modo più che modesto, in Francia, a Parigi, dove ben presto andranno famelicamente in cerca della bella casa dei parenti banchieri. È Ada la guida del branco, la più ostinata nell’ inseguimento, perché innamorata, fin dai tempi di quel pogrom che l’ aveva costretta a cercare riparo nella città alta, di Harry, figlio del banchiere, che ha i tratti così simili a quelli di lei: gli stessi capelli scuri e ricci, lo stesso viso stretto, la stessa espressione triste e il naso lungo. E sarà lei, assieme al cugino Ben, a sua volta lupo affamato, a portarlo alla rovina. Il romanzo, pieno di passione e di nostalgia, evoca con forza e immediatezza il perduto mondo ebraico russo, nonché quello francese dell’ emigrazione, anche più duro e difficile, perché la comunità vi è considerata più straniera ancora di quanto non lo fosse in Ucraina. A suo tempo venne accusato di antisemitismo, e non è escluso che la scrittrice, peraltro firma importante di due riviste tendenzialmente antisemite, incarnasse una figura peraltro ben presente nella tradizione, quella dell’ ebreo che irride se stesso. Più probabile però – il libro, come tutti i libri, parla del suo autore, in questo caso della sua ansia, dei suoi timori se non della sua disperazione – che Irène Némirovsky, sentendosi braccata assieme al marito e alle figlie, abbia tentato anche la strada dell’ autodisprezzo per ingraziarsi un qualche potente che avrebbe eventualmente potuto intercedere per loro.

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