12 Dicembre 2007
CORRIERE DELLA SERA

Irène Némirovsky: com’ era bella la mia vecchia Russia

Isabella Bossi Fedrigotti

Un incantevole, breve racconto russo di Irène Némirovsky, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1931, esce infine in Italia: nemmeno cento pagine, e dispiace, perché si vorrebbe che durasse più a lungo. S’ intitola Come le mosche d’ autunno e riferisce la vicenda di una grande e ricca famiglia costretta dalla rivoluzione bolscevica ad abbandonare i propri possedimenti e l’ ampia, splendida residenza dalle innumerevoli stanze, e a fuggire, con poco o nulla tranne i gioielli cuciti nelle fodere dei vestiti, per riparare in Francia, a Parigi, dove sopravvivrà stentatamente, in un angusto appartamento. Una classica storia, dunque, dell’ emigrazione russa, già narrata e già ascoltata tante volte: ma Irène Némirovsky cambia la prospettiva, non lascia che sia il capofamiglia, Nikolaj Aleksandrovic Karin, a raccontare, e nemmeno sua moglie Elena Vassilievna oppure uno dei tre figli, e dà invece la parola alla vecchia nutrice, alla tata Tatiana Ivanovna, che da cinquant’ anni e da tre generazioni è al servizio nella casa dei Karin. È, dunque, la sua voce che ci accompagna nelle pagine, dal regno incantato dell’ eleganza, della bellezza e del calore allo squallore di un grigio quartiere parigino, dove d’ inverno tristemente piove soltanto e non nevica mai come nella perduta patria; voce accorata che coglie la tragedia di quel repentino e violento mutamento di destino con infinito più struggimento e disperazione che non i suoi padroni. Tuttavia, a pensarci bene, è forse giusto così, perché era Tatiana la custode della casa e delle sue regole, era Tatiana che sapeva quale armadio custodiva le lenzuola di lino per i signori e quale, invece, quelle di flanella per i bambini e la servitù, era Tatiana che meglio di tutti si orientava tra le stanze, le soffitte, le cantine e i segreti ripostigli del grande palazzo, era lei che teneva il conto delle posate e dei piatti, e ancora lei soltanto che conosceva a menadito i gusti di ciascuno dei tre ragazzi in fatto di cibo. Era, insomma l’ anima della casa, in certo senso padrona più legittima dei padroni stessi. Questi ultimi, per parte loro, le avevano in effetti affidato contorno e sfondo della loro vita quotidiana, per cui sono, sì, rammaricati dal violento cambio di stagione, ma con un distacco fatalista e snob che permette loro di sopravvivere abbastanza bene anche nel modesto appartamento parigino. Né il degrado, prima di tutto economico, ma poi, in qualche misura anche morale, li segna più di tanto: sono, insomma, di una stirpe che, adattandosi, riesce a non andare a fondo. Di tutt’ altra stoffa la nutrice, impavida e tenace fin quando si tratta di difendere la «sua» casa e la «sua» famiglia; smarrita, invece, perduta e vulnerabile laddove di lei e della sua forza non sembra esserci più così bisogno. Non è solo una questione di case e di cose, perché a Tatiana erano stati affidati anche i figli, perché li amasse e li curasse come i padroni non avevano il tempo né l’ abitudine: non a caso, è lei che abbraccia e bacia i due fratelli che partono per la guerra, è lei che raccomanda e consola, benedice e si strugge, sapendo che di un addio ben diverso dagli altri soliti si tratta, quando i ragazzi ogni autunno si mettevano in viaggio per raggiungere il collegio. Ed è Tatiana – madre soltanto per delega, ma con pieni diritti – che traccia il segno della croce sopra la slitta che porterà via nella notte gelata i due figli di casa, e figli suoi. Una volta a Parigi niente sarà più come prima. Simili a mosche d’ autunno, i suoi un tempo splendidi padroni girano a vuoto nel piccolo appartamento come anche nel ristretto mondo dell’ emigrazione russa. Soprattutto – forse per non soffrire più del dovuto – non vogliono ricordare il passato né mai parlano del perduto mondo le cui regole sono stare cancellate e dimenticate. Ed è questo l’ inaccettabile per Tatiana che, senza i ricordi, senza la memoria della vita nobile e grandiosa, è soltanto una povera vecchia che si muove tra le stanze di un lugubre appartamento, in una città dove la neve non cade mai, una donnetta smarrita che si affanna per strade che non conosce, tra gente che non sa nulla di lei e che lei non capisce. È maestra, Irène Némirovsky, nel descrivere la Russia che ha conosciuto da bambina e quella più nuova che, anni dopo, ha ritrovato in Francia. Ma, forse, è ancora più maestra nell’ evocare, con tenerezza e struggimento, la figura dell’ anziana nutrice che, grazie alla sua penna, si trasforma in uno di quegli amati personaggi che, a quasi tutti, ricordano qualcuno in carne e ossa. L’ autrice Irène Némirovsky nacque a Kiev da una famiglia ebraica nel 1903. Morì ad Auschwitz, dove era stata deportata, nel 1942. I suoi libri furono pubblicati postumi

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