7 Settembre 2016
il manifesto

Jami Attenberg e la signora dei senza voce

di Alessandra Pigliaru

 

Era un piccolo cinema il Venice di Manhattan, fino ai primi anni Quaranta lo si poteva trovare al 207 di Park Row, tra la Bowery e Chinatown. Alla biglietteria stava Mazie Phillips, donna prorompente, qualcuno direbbe forse ingombrante, capelli biondo platino, voce gracchiante e occhi di un una lucidità tutta alcolica. Quando l’8 giugno del 1964 muore al Lenox Hill Hospital, le viene dedicato un articolo dal New York Times in cui a essere ricordata è la «Regina della Bowery». Così infatti era conosciuta Mazie che, finito il lavoro al Venice, si avviava nelle strade desolate, tra gli ultimi. E parlava con loro. A volte se le cose finivano male chiamava un’ambulanza, altrimenti bastavano due chiacchiere, spesso un sorso in compagnia. Tormentata generosità ciò che spinge una giovane donna a trascorrere le proprie notti come una sonnambula, alla ricerca di un contatto con l’altrui afflizione – forse anche la propria. Niente istituzioni, niente tentativi di proselitismo e redenzione, bensì desiderio autentico di dare consistenza a una realtà fuori sesto. Sullo sfondo della Grande Depressione e del proibizionismo, l’esistenza di Mazie Phillips si trasforma così in una insorgenza difficile da trattenere. Un anno fa, la sua storia ha ispirato un romanzo bello e appassionato scritto da Jami Attenberg che si intitola Santa Mazie, ora arrivato anche in Italia grazie alle edizioni Giuntina (traduzione di Paola Buscaglione Candela, pp. 300, euro 16,50).

Ha saputo dell’esistenza di Mazie Phillips grazie al bel ritratto che di lei ha composto Joseph Mitchell nel suo «Up in the Old Hotel» (comprendente articoli apparsi sul «New Yorker» dal 1943 al 1963). Com’era questa sua regalità senza corona?

Sono stata subito affascinata dalla sua compassione per gli altri meno fortunati di lei, e sono rimasta colpita dal suo impegno verso la comunità a cui credeva di appartenere. Per decenni, Mazie Phillips ha aiutato migliaia di uomini e donne senzatetto semplicemente perché le importava, si preoccupava della loro salute e della loro felicità. Insomma, aveva un grande cuore. Straordinaria è stata la sua profonda umanità, esorbitante in tutti i sensi: beveva, fumava, era irascibile, eccessiva. Tutti questi elementi insieme mi hanno incuriosita, ispirata e quasi subito ho pensato di scrivere un libro su di lei.

L’autobiografia immaginaria che ha composto è come un diario per immagini. Visivo a tal punto che sembra essere stato pensato come un documentario, con alcuni personaggi che interrompono la voce della protagonista per descrivere il suo carattere. In che modo ha lavorato?

In sostanza ho iniziato a scrivere il libro come un memoir di finzione. Avevo in mente un paio di domande a cui volevo trovare risposte. Per esempio mi interessava come una donna ebrea del Lower East Side nel 1920 si è potuta interessare alla fede cattolica al punto di cominciare a diventare praticante. E mi sono chiesta perché ha pensato di entrare in contatto soprattutto con gli uomini senza una casa e le donne che meno spesso vivevano per strada. Perché non si era mai sposata e la ragione di tutta quella incandescenza, le sue imperfezioni, i suoi eccessi nel bere alcolici, le sue tendenze violente.

Tuttavia, quando ho cominciato a scrivere il libro in questi termini ho sentito una sorta di rimosso che proveniva da una voce che mi ostinavo a catturare. Mi sono accorta che non avrei mai conosciuto la vera Mazie e non avevo a disposizione documentazione sufficiente a parte il saggio di Mitchell. Ho iniziato allora a pensare che se avessi potuto ne avrei voluto parlare con chi l’aveva davvero incontrata e, nell’impossibilità di farlo, ho capito che potevo solo inventare quei personaggi. Da lì il documentario, un collage che si è composto nel modo in cui le sue parti si facevano avanti.

Quali testi storici ha pensato di consultare?

Mi sono dedicata anche alle ricerche storiche. Ho visitato il Tenement Museum di New York City, dove sono stata in grado di visualizzare gli appartamenti delle case popolari anguste del periodo in cui è vissuta Mazie. E ho letto libri, inclusa una storia di Coney Island, Amusing the Million: Coney Island at the Turn of the Century. Poi anche Only Yesterday, una storia degli anni ’20 del Novecento redatta una decina di anni dopo. Infine Low Life, un ritratto di New York City a cavallo tra il 1800 e i primi del Novecento. Ho guardato documentari, filmati, ho ascoltato musica. E ho fantasticato su di lei, ho camminato a lungo di notte intorno a Manhattan, sulle strade di ciottoli che lei stessa aveva percorso. Ho meditato su di lei. Probabilmente ho messo anche un po’ di me in lei, e un po’ anche l’ho assimilata ad altre donne forti, coraggiose. Credo che questo tipo di furto sia inevitabile.

Mazie è diventata così una miscela di un sacco di cose, ma è anche se stessa. Mi ci sono voluti circa due anni per completare il libro.

Nel suo romanzo, «I Middlestein» (Giuntina, 2014), sulla forma che può assumere la vita coniugale, al centro c’è Edie, la protagonista femminile, e i suoi eccessi in particolare con il cibo. Edie e Mazie hanno qualche punto di comunanza riguardo la stessa fame. Di cosa?

In proposito mi ha colpita una critica che hanno attribuito ai miei personaggi. Parlava di un edonismo e senso di colpa e inizialmente ho pensato che fosse appropriato. Non credo abbiano una fame di desiderio, per esempio poiché mi pare che il desiderio esista già dentro di loro. Sono però creature voraci, sia Edie che Mazie. E mi domando se non sia questo un modo divertente, luminoso per esistere.

Alla domanda «Non vorresti un innamorato?» Mazie risponde «Il mondo intero è il mio innamorato». Ha raccontato una storia di libertà femminile in cui l’amore è essenziale o c’è dell’altro?

La vera Mazie si sentiva molto moderna secondo me. Non credo di aver intuito o connesso caratteristiche contrarie riguardo il suo conto, o almeno non era questo che volevo fare. Anzi ho potuto imparare da lei, ho voluto sapere ciò che sapeva. Così ho scritto di una donna forte che abbraccia liberamente la sua sessualità e la sua libertà, perché volevo vedere quel personaggio esistere nel mondo. L’ho desiderato. A un certo punto diventano come dei modelli, quando pensiamo di averne bisogno. In fondo cerco sempre di riferirmi a forti protagonismi di donne. Questo è un atto femminista, un atto politico per me.

Uno dei personaggi del suo libro si chiama Elio Ferrante, un docente esperto della storia di Brooklyn. L’omaggio è a Elena Ferrante, c’è qualcosa in particolare che ama delle sue narrazioni?

Mi piace la complessa rugosità e l’umanità dei libri di Elena Ferrante. C’è una qualità intensa e febbrile che ammiro. E lei è una femminista, una mente politica. Dal punto di vista della scrittura, ha la capacità di costruire molto lentamente i suoi personaggi, ne segue la tensione fino al punto di rottura che si presenta come un sollievo, anche se le azioni intraprese nel momento culminante sono violente, oscure. Assistiamo cioè alla costruzione minuziosa di questa oscurità fino a essere confortati quando se ne comprende l’esito. In questo senso, i suoi libri li ho letti come un risultato ed è importante studiare il modo in cui lei lavora.

(Il manifesto, 7/09/2016)

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