25 Gennaio 2019

Julie Bindel e la battaglia femminista nel mercato del sesso

di Luisa Muraro

Anni fa, nella campagna piemontese, un ragazzo di leva (la leva militare esisteva ancora) uccise una ragazza con la quale si era appartato a fare sesso. La massacrò con una bottiglia rotta trovata sul posto. Di lei non sappiamo niente tranne che era giovanissima e che era africana. «Perché lo hai fatto?» gli chiesero i carabinieri. «Perché quando lo ha visto si è messa a ridere».

La ragazza uccisa perché aveva riso della piccolezza del membro virile del suo “cliente”, evidentemente non aveva esperienza. E non sapeva, né avrà mai il tempo d’imparare, che cosa vogliono, al novanta per cento, gli uomini che pagano per fare sesso, da Berlusconi al più sprovveduto degli adolescenti: essere rassicurati al cento per cento che sono veri maschi.

Il resto è letteratura, come si dice. Ed è proprio così, perché la letteratura, anche quella grande, e il cinema, anche quello di qualità, raccontano tante storie di prostituzione femminile che sono fasulle. Storie fasulle ma autentico aiuto all’insicurezza sessuale degli uomini così come al bisogno sociale di fare finta che non è questo il problema.

Tra queste storie è nota quella di Pretty Woman, un film del 1990 con Richard Gere e Julia Roberts. Tento di farne un riassunto: racconta il caso di un miliardario annoiato che, per finire, s’innamora di una donna che, da lui presa al suo servizio 24 ore su 24 per una settimana, doveva fare finta di essere quella che non era… Se mi chiedete che cosa lei fosse e che cosa doveva fingere di essere, non saprei rispondere, sono i misteri della prostituzione femminile nell’immaginario maschile. Ma nella fiction la pretty woman se la cava benissimo e alla fine sarà una donna felice. Il film è stato un grande successo.

Il mito Pretty Woman s’intitola l’inchiesta condotta da Julie Bindel sul mercato del sesso ai nostri giorni. Sottotitolo: Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, editrice VandA per l’edizione italiana curata da Resistenza femminista.

Chi è Julie Bindel? Il libro dà qualche notizia, per esempio che è una giornalista britannica rinomata per le sue inchieste. Dalle sue parole risulta che è una femminista, sensibile al fatto di vivere in una civiltà che attribuisce agli uomini un potere sulle donne, potere che si esercita anche con la violenza. Secondo lei, pagare per avere a disposizione il corpo di un essere umano è una forma di violenza grave. Come Rachel Moran, pensa che la prostituzione sia uno stupro a pagamento.

Non scrive il libro per dimostrare queste cose, di cui è già convinta, così come lo sono, per l’essenziale, molte altre donne, fra cui la sottoscritta, e quegli uomini, quanti non so, che ci hanno riflettuto. Il libro è una grande inchiesta durata anni che Julie Bindel conduce per documentare quello che capita sul mercato del sesso in vari paesi del mondo. La sua attenzione è rivolta costantemente a valutare l’ordinamento giuridico del paese (proibizionista, pro-regolamentazione, anti-regolamentazione) alla luce dei vantaggi/danni/pericoli per le donne, la loro sicurezza e la loro libertà. Personalmente, lei sostiene il modello nordico creato nel 1999 dalla Svezia con una legge che non reprime la prostituzione in sé ma scoraggia il mercato del sesso reprimendo la domanda. Chiama abolizionista questa posizione.

Julie Bindel non conosce e quindi non discute l’ordinamento italiano basato sulla legge Merlin, che, al pari della legge svedese, non reprime la prostituzione in sé, ma che, diversamente da questa, non reprime neanche la domanda. E, per scoraggiare il mercato, ricorre alla repressione dei comportamenti di persone terze che si inseriscono nello scambio sesso-denaro avendo da questo qualche vantaggio, che si tratti dello sfruttatore o della padrona d’albergo. Legge geniale, messa in un delicato equilibrio, di cui c’è da temere che qualcuno voglia “migliorarla”. Con ciò non sono contraria al confronto con la legge svedese, anzi, purché fatto con cognizione di causa.

Il libro di Julie Bindel, in questo senso, è utile. Lo è ancor più in quanto esercita l’indispensabile funzione della carta stampata in un’epoca di enormi flussi d’informazione per via digitale, la funzione cioè di selezionare le notizie e di disegnare delle mappe di orientamento. Leggendo Il mito Pretty Woman ripensavo alle affascinanti battaglie di Anghiari dipinte da Vittoria Chierici (v. la rivista “Via Dogana” n. 68, marzo 2004). Al centro dei dipinti c’è una mischia: è la battaglia per lo stendardo, mi ha spiegato la pittrice. Anche nel libro della Bindel è riconoscibile in posizione centrale una battaglia, ed è quella della narrazione, secondo l’espressione che fa da titolo al testo di Lia Cigarini sull’ultimo Sottosopra.

Qui, nella Bindel, la battaglia è fra i banalizzatori da una parte, che dicono furbescamente: prostituirsi è un lavoro come tanti, anzi in certi casi è un servizio sociale. E, dall’altra, chi la sente invece come una grave ferita ai rapporti tra donne e uomini.

Questo tipo di battaglia, sempre più frequente nel regime del vero/falso del sec. XXI, è centrale nella politica del simbolico. Ma, perché valga la pena di combatterla e vincerla, c’è una condizione. Ed è che non affidiamo il suo esito soltanto a criteri esteriori. Il campo di battaglia non si riduce all’opinione pubblica e al conteggio dei voti o dei like, la vittoria nella battaglia della narrazione si raggiunge con parole che interpretano un sentire profondo e condiviso, quello di donne che desiderano il meglio per sé e di uomini che prendono coscienza.

Anche Julie Bindel cerca queste parole e offre a chi legge le conoscenze indispensabili non per schierarsi pro o contro ma per formulare le domande giuste nel modo giusto. Tra le domande, ne riporto una che sorge bruscamente nel capitolo intitolato «L’uomo invisibile». Dall’inchiesta di Bindel risulta che gli stessi compratori di sesso (i cosiddetti clienti) ammettono talvolta di avere (spesso?) comportamenti indegni o violenti con le donne. Domanda di lei: «Allora perché c’è così tanto sostegno nei confronti del compratore di sesso da parte della sinistra liberale?». Non è una domanda qualsiasi. Riguarda, infatti, una cultura politica di uomini, donne non escluse, che si è allontanata dal sentire comune per essere moderna, progressista, spregiudicata, all’avanguardia dei nuovi diritti. E si ritrova senza antenne per captare gli umori e i sentimenti di quelli che non fanno moda, tagliata fuori dalle sue risorse originali e, in definitiva, perdente. Sfogarsi sulla misoginia dell’avversario (o, tipica variante, sul suo razzismo) è inutile. Il partire da sé non è intimismo, è politica. Ma che sia un vero partire per andare verso l’aperto, e non un gingillarsi con le proprie buone ragioni.

(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2019)

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