16 Aprile 2008
l'Unità

“La Fosca grandezza” di Daphne Du Maurier

A.H.: “Non è un ‘film di Hitchcock’…Era una storia di vecchio tipo, piuttosto demodé….una storia che manca di umorismo” – F.T.: “In ogni caso ha il pregio della semplicità. Una giovane donna (Joan Fontaine) sposa un bellissimo Lord (Laurence Olivier), tormentato dal ricordo della prima moglie Rebecca, morta in circostanze misteriose. Nella grande dimora di Manderley, la nuova sposa non si sente all’altezza della situazione e teme di sfigurare nel suo nuovo ruolo; si lascia dominare, poi atterrire dalla governante, la signora Danvers, legata al ricordo di Rebecca. Un’inchiesta tardiva sulla morte di Rebecca, l’incendio di Manderley e la morte dell’incendiaria, la signora Danvers, porranno fine ai tormenti della protagonista”. Sono battute tratte da Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, libro mille volte ristampato tanto è bello, in cui leggiamo la facile trama di un racconto cosiddetto demodé… Rebecca la prima moglie.
L’autrice del romanzo, appena uscito dal Saggiatore con una nuova traduzione, è l’inglese Daphne Du Maurier, scrittrice prolifica, nata a Londra nel 1907 da una nobile famiglia di origine francese, morta nel 1989, e vissuta, lontana dalla mondanità, quasi sempre nell’amata Cornovaglia, dove inventava e spesso ambientava storie di ogni genere, storico, gotico, biografico, suspence. Una penna dai molti registri e dall’indubitabile talento (non è un caso che ben nove dei suoi numerosi testi abbiano conosciuto la trasposizione cinematografica, e proprio di recente una fiction televisiva – Rebecca, appunto), troppo spesso catalogata fra le minori, graziosamente dette “popolari”. In realtà la Du Maurier arriva al grande pubblico perché è capace di raccontare una storia, di delineare con precisione psicologica i personaggi, di creare un’atmosfera che radica il suo naturalismo nel perturbante, di tenere con avido fiato in gola il suo lettore fino all’ultima riga. Se prendiamo proprio Rebecca la prima moglie, pubblicato nel 1938, dimenticando sia il bel film, del 1940, sia la mediocre fiction di poche settimane fa, ci troviamo tra le mani pagine che sulla semplicità della fabula costruiscono un intreccio di lenti ma continui e imprevedibili colpi di scena, basato tecnicamente sull’inversione della temporalità (si comincia dalla fine della storia, con un sogno-incubo, e la storia finisce con un altro sogno-incubo), su una voce narrante unica, quella della protagonista, che non ha mai un nome proprio (è sempre e solo “la seconda signora de Winter”), su una scena affollata da molti protagonisti, tra cui indubitabilmente la grande dimora, Manderley, che da ambiente-sfondo diventa vero e proprio personaggio con un’anima sempre mutevole, gioiosa, carezzevole, bellissima, ma anche spettrale, immobile, piena di ombre, avvolgente come un’oscura ragnatela viva e parlante. Specchio e riflesso di un’altra specularità, quella tra la nuova signora, che era in precedenza una giovanissima dama di compagnia, e la vecchia governante, che ferocemente venera la sua prima e unica signora, Rebecca, ed è una vera, perfida antagonista, in un libro che racconta l’amore tra un uomo e una donna, ma anche, sebbene in via allusiva, quello tra due donne. E ancora racconta la paura, il terrore che il sentimento di una donna può incutere al sentimento di un’altra, la distruzione che ne può seguire.
Lo sguardo dell’autrice sulle relazioni umane è dunque affilatissimo, mai possiamo decidere tra personaggi a tutto tondo, semplicemente buoni o cattivi: è buono il signor de Winter, che, non amato, insultato nel suo onore, diventa un assassino? È buona la seconda signora de Winter che per amore del principe azzurro accetta fatalmente la sua confessione e se ne fa complice? E’ cattiva la signora Danvers, vittima di un amore che non può dire nemmeno a se stessa, e può sopravvivere, si anima, solo e sempre girando attorno alla propria ossessione, a una stanza, un letto, una camicia da notte, una spazzola per capelli irrigidite dal soffio sinistro della morte? Sì e no, ed è questa la grandezza di un’invenzione capace di vedere con occhio distante e lucido gli esseri umani nella loro complessità, di non idealizzare le donne “buone” né immiserire per banale misoginia i comportamenti di quelle “cattive”, e facendo valere questa sua postura mentale anche nei confronti degli uomini, complici e avversari, mantenendo e rappresentando una differenza fra i sessi che non li impicca mai a un unico chiodo, il già detto e pensato. In questo sguardo si rinnova con la Du Maurier un filone inglese di lunga tradizione, quello delle governanti, alla Jane Eyre della Brönte, degli amori che portano incendi che parlano il silenzio della follia o l’amore lesbico, di uomini che alla fine non possono che scendere da cavallo. Una mescolanza di sentimenti e azioni che riguardano i sessi e le classi sociali, in cui la venatura “rosa”, spesso attribuita alla scrittrice, si rivela del tutto fuorviante, perché lei sa mettere in scena, piuttosto, rapporti crudeli ma veri, con la forza di una teatralità appresa forse dai suoi genitori, entrambi attori.
Questa tonalità di scrittura della Du Maurier è ancora più eclatante nei suoi racconti, ad esempio in quelli raccolti sotto il titolo Gli uccelli e altri racconti (il Saggiatore 2008), notevoli tutti per ragioni diverse, la prima delle quali può essere riassunta dalle parole con cui, in una recente intervista, Nadine Gordimer definisce l’essenza stessa di questa forma rispetto al romanzo, il suo essere completa come “un uovo”, senza tappe e passaggi dunque, tanto da poter essere tenuta “completamente in una mano”. Se il primo, Gli uccelli, è di nuovo forse il più famoso – per essere diventato un altro film di Hitchcock nel 1963 -, è indubbio che la grande sfida vinta dalla Du Maurier è quella di aver raccontato in 35 scarne paginette la massima concitazione in un quadro perfettamente immobile: una piccola fattoria abitata da una normale famigliola in una penisola qualunque, la vita di una piccola comunità sconvolta da un evento inspiegabile e inspiegato, l’attacco di migliaia di uccelli, tanto imprevedibile da diventare l’architrave di un perfetto meccanismo a suspence. E’ la rivolta della natura contro l’uomo che, immaginata già nel 1953, fa di questa autrice, non a caso così abile nell’osservazione attenta e precisa della realtà, un’anticipatrice di temi e problemi attuali dispiegati con innegabile maestria. La stessa che leggiamo ne Il vecchio, dieci sole pagine di un’inquietudine affilata che nascono da un’altra forma di inversione, l’attribuzione a una coppia di cigni di sentimenti che fino all’ultimo pensiamo appartenere a una coppia di umani. Alle donne, poi, nulla viene perdonato, la superficiale marchesa de Il piccolo fotografo pagherà la sua sventata e vanesia avventura con l’ometto storpio, l’amante passeggero e adorante, non con qualche soldo, come pensava, ma con la presenza persecutrice della sorella di lui, per sempre; la vita dell’appagato vedovo de Il melo sarà sopraffatta e perduta dal persistere della presenza insopportabile della moglie morta in quell’albero che gli toglie la vista serena del giardino, dei suoi frutti che sembrano volerlo seppellire per bruttezza e quantità, e che una volta abbattuto, lo farà sprofondare nella neve e nell’oscurità, per sempre. Questa temporalità algida e portatrice di morte torna di nuovo in Baciami ancora, sconosciuto, la cui sensuale e silenziosa protagonista, che promette amore e avventura, uccide invece senza pietà né spiegazioni.
A me pare che questo basti per ricominciare a leggere Daphne Du Maurier, appassionandoci alle sue atmosfere vertiginose, alla magia della sua immaginazione, in cui tutto può all’improvviso trascorrere dalla normalità apparente all’angoscia più minacciosa, basti insomma a rimetterla, finita la lettura, nello scaffale degno di lei, quello delle grandi scrittrici.

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