23 Marzo 2006
il manifesto

La geniale arte della vita

Il segno femminile del Novecento. Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette raccontate da Julia Kristeva. Tre biografie in una trilogia, in via di pubblicazione in Italia da Donzelli, alla ricerca delle tracce dell’esistenza che diventano pensiero e scrittura
Paola Bono

Una giornata intensa per Julia Kristeva, il primo martedì di primavera che l’altroieri l’ha vista a Roma in occasione del premio Amelia Rosselli, assegnato al suo volume su Hannah Arendt e alla casa editrice Donzelli che l’ha pubblicato l’anno scorso, dopo quello su Colette apparso nel 2004 – una trilogia che si completerà con il libro su Melanie Klein, in uscita a settembre 2006. L’abbiamo incontrata in mattinata prima della sua visita alla Casa internazionale delle donne, e poi di nuovo alla Sala S. Rita, dove nel pomeriggio – accolta da Mariella Gramaglia a nome del Comune di Roma, che organizza il premio Rosselli – ha parlato della sua concezione del «genio femminile», cui si intitola la trilogia, discutendone con Nadia Fusini, Federica Giardini, Pietro Montani, e Elisabetta Rasy. Quelli della trilogia sono libri complessi che alternano e intrecciano diverse modalità di narrazione e analisi, ripercorrendo la vita e il pensiero di tre donne straordinarie che hanno segnato il Novecento, mentre vi si iscrive anche tutto il portato del multiforme percorso intellettuale di Julia Kristeva. Accanto alla riflessione su temi filosofici di continuata rilevanza, e personalmente toccanti per lei, nata nella Bulgaria stalinista, accanto alla critica linguistico-letteraria sottilmente esercitata nel confronto attento con il testo, è fortemente presente – come costante che non riguarda soltanto Melanie Klein e il suo contributo – la teorizzazione psicoanalitica, con pagine che innovativamente riesaminano alcuni punti nodali delle elaborazioni freudiane. Sarebbe dunque riduttivo definirli semplicemente delle «biografie», ma certo sono anche questo.

La scrittura biografica, da alcuni decenni al centro di un acceso dibattito interdisciplinare, è stata spesso paragonata a un passo a due – incontro di due soggettività, possibile gioco di rispecchiamento e di individuazione. Qual è stato nella sua esperienza di scrittura il suo rapporto con queste tre donne tanto diverse? Quali i ritmi, le mosse, gli esiti del passo a due danzato con loro?

In Italia si ha di me un’immagine di studiosa di semiotica interessanta alla forma più che alla vita; ma da tempo nel mio lavoro cerco di sottolineare l’importanza del dato esperienziale, di rendere parlante l’esperienza di scrittori e scrittrici nel loro situarsi nella Storia. Per scrivere la trilogia non ho svolto ricerhe d’archivio originali, mi sono servita di biografie esistenti e insieme di una lettura attenta dei testi di Arendt, Klein e Colette, per fare quello che davvero mi premeva, e cioè ripercorrere la loro traiettoria di pensiero. Nella polifonia di vita e opere di questi libri per così dire bifronti, forse ho scelto – mi hanno detto – donne che mi somigliano; un’osservazione che mi onora e mi lusinga, sebbene mi senta lontana dalla loro grandezza e dal loro coraggio. Certamente è stata una frequentazione assidua, che ora che si è conclusa mi lascia l’impressione di aver condiviso le loro vite in una prossimità sororale. Mi hanno insegnato molto: Arendt mi ha aiutato a capire meglio e diversamente il mondo politico, Klein a penetrare più a fondo il rapporto tra sessualità e vita del pensiero, e Colette… Colette indica la strada della gioia che non si arrende alla malinconia, è una maestra del piacere di vivere.

In che modo a suo parere, i dati biografici hanno inciso nello sviluppo del «genio» di queste donne?

Assai diversamente, come diverse sono state le loro vite. Per esempio, nel caso di Arendt, è stata sottovalutata secondo me la rilevanza del suo essere ebrea in Germania, subito prima e all’avvento del nazismo. La sua era una famiglia integrata, non religiosa, e la loro ebraicità non era centrale nella loro vita; ma a scuola questa specificità veniva in primo piano in episodi di minuto antisemitismo. Racconta Hannah Arendt che sua madre regolarmente scriveva protestando vibratamente, e lei, Hannah, veniva sospesa per un po’ (il che, allora, le faceva anche piacere…). Ebrea di famiglia integrata, dunque, ma cosciente di un antisemitismo mai del tutto assopito, che si sarebbe poi tragicamente affermato; innamorata della cultura tedesca, della lingua e della filosofia tedesca cui continua a fare riferimento anche quando è costretta a lasciare la Germania. E poi è stata fondamentale la relazione amorosa con Heidegger , di cui si è molto scritto. Ritengo osceno ridurla al solo aspetto di relazione sessuale, sebbene sia stata anche questo; in essa Arendt ha messo in opera una rara capacità di mantenere il rapporto del pensiero nella diversità di posizioni, la capacità di essere, come scrive lei stessa «fedele e infedele». Ha saputo prendere da Heidegger, ma più in generale dalla cultura tedesca ed europea, quel che le appariva essenziale, sapendolo trasformare in pensiero politico – assai modesta, non si definiva una filosofa, ma una «giornalista politica», che però ci ha lasciato intuizioni e riflessioni ancora vitali e feconde. E’ stata capace di capire subito che l’imperialismo e l’antisemitismo sono inerenti alla cultura europea, ma che in essa ci sono anche gli antidoti, e bisogna dunque trovarli e farli agire. Ha colto prima di chiunque i punti di contatto tra stalinismo e nazismo, la loro essenza totalitaria di negazione del pensiero singolare, di «banalizzazione» dell’umano che porta alla banalizzazione del male.

Nella trilogia torna più volte l’accento sulla singolarità – singolarità delle «protagoniste» di ogni volume, ma anche singolarità di ciascuna donna; e insieme il riferimento a una comune differenza nella quale solo si mostrano la creatività e la specificità delle donne. Come prende forma nel genio singolare di Arendt, Klein, Colette, questa comune differenza?

L’insistenza sulla singolarità è un dato fondante della cultura europea, che la caratterizza e distingue, e che credo si debba al suo essere incrocio di civiltà – greca, ebraica, cristiana. Dovremmo essere più fieri della nostra cultura, senza naturalmente dimenticare che ha anche grandi colpe storiche, con il colonialismo per esempio; ma saperne vedere e rivalutare e affermare gli elementi positivi di attenzione all’umano singolare. Un tratto comune di Arendt, Klein e Colette, un tratto che si lega al loro genio femminile, è che tale singolarità non diventa mai egotismo, è sempre desiderosa e capace di condivisione. Penso all’atteggiamento di Hannah Arendt verso la filosofia, quando definisce Platone, Kant e Heidegger esponenti della «tribù malinconica» dei filosofi chiusi nella loro torre a lamentarsi in discorsi esoterici che non si sforzano davvero di comunicare; a lei interesseva invece produrre un pensiero singolare che potesse però essere condiviso. Questa attenzione al legame, insieme all’insistenza sul tempo della nascita e della rinascita, e alla preoccupazione di salvaguardare la vita del pensiero, situato al cuore della vita, mi sembrano rintracciabili in tutte e tre, aspetti variamente declinati di una comune differenza.

Anche in questa trilogia, come già in precedenza nel suo lavoro, lei indaga il femminile e più ancora – direi – il materno, mettendo in gioco la complessità dei suoi molteplici aspetti. Centro dell’abiezione per la minaccia con/fusionale che in esso si incarna; aurora del legame con l’altro perché luogo di un amore unico nel suo essere amore per il «qualunque» che viene; «presa» a cui sottrarsi in una dinamica di libertà che passa attraverso il matricidio. Sono riconciliabili questi aspetti, e come?

E’ vero, la riflessione sul materno e sulla maternità è centrale nel mio lavoro, credo ve ne sia grande bisogno e che troppo poco si sia elaborato in proposito. In particolare mi interessa mettere in evidenza la difficoltà della vocazione e della funzione materna, spesso dimenticata o rifiutata in nome di una diversa realizzazione di sé; oppure avviene, oggi con molta evidenza, che la maternità venga mercificata, falsamente idealizzata in immagine commerciale con le infinite pubblicità di bimbi rosei e ridenti. Come psicoanalista mi trovo davanti alla fatica della maternità, alla crisi del sé che si vive nel rapporto con la propria creatura, rapporto fatto di tenerezza esorbitante e di esorbitante violenza, in cui convivono volontà di possesso e dipendenza. Poi la madre riesce a sublimare, lascia libero il figlio, la figlia, offrendo loro il dono del linguaggio, che si sostituisce al contatto corporeo. Qui sono in dissidio con Freud, secondo il quale la donna sarebbe incapace di sublimazione; credo che Freud non abbia guardato abbastanza le madri. Certo ci sono anche grandi scacchi della funzione materna, e credo che anche problemi sociali di grande importanza – le rivolte nelle periferie, la tossicomania, i suicidi di adolescenti – siano in parte legate a questi scacchi. Le madri sono lasciate sole, e non ci si rende conto che è un problema di civiltà capire il ruolo chiave della maternità e sostenere le madri nel loro difficile e fondamentale compito.

Lei delinea tre fasi della «battaglia delle donne per la loro emancipazione» nei tempi moderni: la rivendicazione dei diritti politici con il suffragismo; l’affermarsi di una «uguaglianza ontologica», l’uscita dalla secondarietà di una coscienza sempre trascesa dalla coscienza dell’uomo, con Simone de Beauvoir; la ricerca della differenza tra i due sessi, sulla scia del maggio ’68 e della psicoanalisi. Ma questa linearità progressiva si spezza se pensiamo che già alla fine della prima fase, senza disconoscere la lotta per il voto e sottolineando la centralità dell’elemento economico, Virginia Woolf aveva messo in primo piano la differenza, sia in Una stanza tutta per sé che ne Le tre ghinee . Eppure Woolf né sottovalutava l’esemplarità – al tempo stesso eccezionale e diversamente ripetibile – delle molte donne di cui rintraccia il contributo nella storia, né essenzializza la differenza in riduttive costanti biologiche. Non crede che assumerne l’insegnamento – come ha fatto il pensiero della differenza sessuale italiano – possa indicare una strada diversa per una risignificazione del rapporto tra uguaglianza e differenza, e anche per un altro modo di coniugare libertà di ognuna e di tutte?

Sono una grande ammiratrice di Virginia Woolf, e avrebbe facilmente potuto essere lei una delle protagoniste della mia trilogia. Non è stato così sia perché per una volta ho voluto sfuggire alla lingua inglese – sia Hannah Arendt che Melanie Klein, sebbene entrambe tedesche, hanno scritto in inglese – sia perché con Colette avevo l’occasione di mostrare una donna che, malgrado difficoltà e tradimenti, sa sfuggire alla depressione, mettendo al centro della sua vita e della sua opera la gioia di vivere. Però è vero che si tratta di una linearità artificiale, che ha senso soltanto se pensiamo al femminismo nella sua forma di movimento di massa; vi sono avventure intellettuali che spezzano questa linearità, e mettono in evidenza la complessità di intuizioni e proposte dove non vi è progressione ma compresenza. Sto lavorando ora su Teresa d’Avila, una donna depressiva e malata, una suora nella Spagna del XVI secolo, che però diventa una donna politica, conduce una battaglia contro la gerarchia della chiesa per riformare il Carmelo, e sa dire alle sue sorelle – nel XVI secolo! – che possono giocare a scacchi in convento per dare scacco matto a Dio.

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