di Francesca Maffioli
Mondo in versi. Il numero 161 della rivista letteraria «Nuova Corrente» è dedicato alla figura, poco conosciuta, della poeta Fernanda Romagnoli
In un’intervista del febbraio del 1991, Attilio Bertolucci, interrogato sulla poesia contemporanea, scelse di citare tre poete: Alda Merini, Amelia Rosselli e Fernanda Romagnoli. Delle tre, l’ultima è certamente la meno conosciuta, nonostante le sue opere siano state editate da Guanda, Signorelli e Garzanti. Causa, forse, certo manierismo dal sapore dannunziano, oppure una non dichiarata ma fattuale indifferenza della critica nei confronti della poesia femminile.
A colmare questo vuoto, ci pensa ora il numero 161 della rivista letteraria Nuova Corrente (pp. 229, euro 22), che raccoglie dieci interventi dedicati all’opera di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986). Il volume, attraverso studi che si ancorano felicemente al dettato poetico dell’autrice, cerca di tracciare una parabola dell’opera omnia della poeta in relazione al panorama letterario italiano del XX secolo.
Come riporta Tatiana Bisanti nel suo saggio, dovremmo riflettere sulle parole usate nel 1943 dal critico Giuseppe Lipparini, nel tentativo di lodare Romagnoli. Descrivendo la sua lirica come «squisitamente femminile», accompagnava questa sua definizione con l’elogio dell’accuratezza formale della scrittura, nell’ambiguo sottointeso che le due caratteristiche fossero in contraddizione. E aggiungendo, a rincarare la dose già esagerata d’essenzialismo, che tale accuratezza fosse più istintiva che ricercata. Bisanti ha ragione nel dire che, invece, proprio tale ricercatezza può risultare manierata e che la maestria nella tessitura delle figure retoriche (in particolare l’allitterazione, ma anche l’anafora e la sinestesia) ci parla più d’artificiosità che d’istintività dell’espressione poetica.
Laura Toppan, nel suo saggio intitolato Povero corpo e sempre / sei campo di battaglia», Confiteor (1973) di Fernanda Romagnoli spiega la pregnanza della cifra tematica del corpo, nella più cruenta delle guerre, quella interiore e «civile» combattuta dal corpo contro sé stesso. Corpo come campo di battaglia delle proprie sofferenze: quelle relative biograficamente alla scoperta della malattia che minerà la salute fisica della poeta, ma anche quelle legate all’insistere dei conflitti familiari e dell’insofferenza al ruolo di casalinga. La rappresentazione della quotidianità si declina non solo nello svelamento dei rapporti interpersonali con i membri della propria famiglia – i genitori scomparsi, così come il marito e la figlia – ma anche nello straniamento provocato dall’orizzonte casalingo.
Proprio gli oggetti domestici, elementi così significativamente presenti nella poesia di Romagnoli, fanno capolino a ricordare quanto ipnotica e straniante sia la loro influenza sulle vite delle donne: «Qui, fra i robot smaltati di cucina / il rosso vivo d’invernali frutti / sul tavolo – fra i gesti abituali / che mitemente vanno consumandoti / con le mani anche l’anima – distratta –: / mentre accendi un fiammifero e la fiamma / sprizza verde veleno all’improvviso, / ecco rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento, e fiori / sino al fiore del seno. Ah, la tua fuga / libera, a perdifiato, sotto i piedi / levando uccelli. La tua gioia, il sangue / senza briglie, innocente. Ah, sulla nuca / la risata d’Adamo che ti coglie / prima ancora d’abbatterti… – Su, donna: / hai sognato, risvegliati? Tu – Eva? / Tu – massaia dal dito bruciacchiato?».
Anche Giorgia Bongiorno, a proposito della raccolta Il tredicesimo invitato (Garzanti, 1980), spiega come, attraverso l’uso di caratteristiche stilistiche che ne confermano il dissidio, il destino dell’individuo sembri situarsi nello spazio dialettico che contempla gli oggetti della quotidianità nella loro tra dimensione corporea – l’umano – e nello spazio della tensione religiosa e metafisica, della ricerca disperata d’assoluto – il divino. Si noti che quando si parla di «divino» in Romagnoli si intende l’orizzonte semantico riguardante la sfera del sacro ma anche quella, più inconsueta, dello «spettrale», del rapporto con i propri defunti. Mentre la tensione tra la dimensione metafisica e quella fisica degli oggetti occupa quest’ultima raccolta di Romagnoli, nelle prime raccolte a dominare era invece il paesaggio, seguito poi dalla variante faunistica: gli animali. Essi emergono in quanto personaggi non passivi di un universo simbolico in cui sono portatori, come in un bestiario medievale, di significati ulteriori.
Gli ultimi articoli del volume ricostituiscono poi i rapporti della poeta con altri autori italiani suoi contemporanei. Nell’utilissimo articolo di Ambra Zorat è riportato il fitto carteggio conservato al Vieusseux di Firenze intrattenuto dalla poeta con Carlo Betocchi e Nicola Lisi, necessario alla comprensione della dimensione psico-biografica dell’autrice. Seguono poi saggi in cui emerge la prospera intertestualità dell’opera di Fernanda Romagnoli, che lega il suo lavoro a quello di poeti stranieri come Emily Dickinson o Konstantinos Kavafis.
In particolare, il saggio di Lucia Aiello ci dice come la relazione delle due poete cammini sulle sponde del linguaggio, per cui l’esperienza del sé attraverso la parola poetica aprirebbe a zone di «possibilità» in cui la tradizione poetica patriarcale potrebbe essere ridiscussa, alla luce dell’emersione di una nuova e diversa poetica.
Il manifesto, «L’ipnosi degli oggetti quotidiani», 2 febbraio 2019