11 Settembre 2020
la Repubblica

La poesia delle donne cura l’anima

di Raffaella De Santis


Mantova città delle donne. Mentre montava la polemica sulla mancanza di donne al Festival della Bellezza di Verona, a una cinquantina di chilometri di distanza gli organizzatori del Festivaletteratura di Mantova dormivano sonni tranquilli visto che la loro manifestazione, seppur falciata dal Covid, è piena di donne. Una delle più amate è una signora elegante che parla sottovoce e ha il portamento di una danzatrice. Mariangela Gualtieri è una poetessa romagnola (anzi poeta, come preferisce essere chiamata) che riempie i teatri recitando poesie. Lei dice semplicemente: «Con i miei versi cucio i vestiti agli attori». Nata a Cesena nel 1951, laureata in architettura, dal 1983 è corpo e voce del Teatro Valdoca, fondato insieme al regista Cesare Ronconi.

Gualtieri sa parlare chiaro, i suoi versi arrivano dritti e non si nascondono dietro allusioni criptiche. Sono limpidi come i suoi occhi azzurri. La incontriamo prima del “rito sonoro” che ha tenuto ieri sera nel cortile di Palazzo Te. Qui era molto attesa, anche dai giovanissimi. La sua poesia “Nove marzo duemilaventi” scritta durante il lockdown e pubblicata inizialmente su Doppiozero è diventata un caso, rimbalzata sui social come fosse una canzone pop e nel giro di pochi giorni tradotta in tutto il mondo. Lunedì prossimo Gualtieri aprirà invece la Biennale Teatro, invitata dal direttore Antonio Latella.

Ora a parlare di donne con Mariangela Gualtieri è un’avventura niente affatto scontata perché si finisce per oltrepassare le gabbie dei generi e per approdare a un’idea di femminile che “riguarda tutti”, anche i maschi che non è detto debbano incarnare la fetta di popolazione votata al muscolo e all’arroganza.

Crede che le quote rosa siano un falso problema?

«Il fatto stesso che bisogna ricorrere a leggi e regolamenti rivela che alle donne si pensa troppo poco».

Nella poesia non accade. Lei, Alda Merini, Patrizia Cavalli siete voci amatissime anche dal pubblico popolare. Cosa ha di speciale la poesia femminile?

«Se mi avesse fatto questa domanda qualche anno fa mi sarei arrabbiata. Le avrei risposto che la poesia pesca in un io profondo, che non è né maschile né femminile».

E oggi?

«Oggi penso che nelle voci femminili ci sia una maggiore umiltà, un senso speciale di dismissione, di cura. Dante diceva di scrivere nella lingua delle mulierculae. Anche io voglio scrivere nella lingua delle donnicciole. Voglio esprimermi in una lingua bassa che sia viva e forte, in cui ci sia posto per l’ascolto e si faccia più attenzione alle piccolezze del quotidiano, e con quella lingua dire anche le cose più alte».

Non si rischia di relegare le donne ai soliti ruoli? Perché non desiderare il potere?

«Non dobbiamo nasconderci dietro attributi maschili ma tenere vive le nostre qualità. La pazienza, la lentezza, la cura per il dettaglio, la contemplatività sono virtù che appartengono a un’idea di energia femminile più estesa, che riguarda anche gli uomini».

Lei cosa faceva negli anni Settanta, apparteneva a gruppi femministi?

(Sorride) «In quegli anni insieme a Cesare Ronconi siamo finiti grazie a una borsa di studio in Polonia. Lì abbiamo scoperto il teatro di Kantor e di Grotowski. Eravamo inconsapevoli, è stata la vita a portarci lì. Ricordo che una volta abbiamo assistito di nascosto alle prove de La classe morta. Sinceramente non mi sono mai riconosciuta pienamente nel femminismo o nei gruppi extraparlamentari che frequentavo in quegli anni. Mi hanno sempre messa un po’ a disagio».

Come mai?

«Mi sembrava avessero una lingua troppo specialistica, esclusiva. Faticavo a capire quello che dicevano. Stavamo ore e ore seduti in stanze fumose. Un sacrificio del corpo che non concepivo. Oggi però mi incuriosiscono le nuove femministe. Il loro mondo mi sembra un mondo più accogliente, più inclusivo».

I suoi versi invece parlano a tutti. Sa spiegarsi il successo enorme di “Nove marzo duemilaventi”?

«Ha sorpreso anche me. Mi chiamavano da tutto il mondo, dalla Cina alla Norvegia. Credo che questo testimoni un grande vuoto di parole. In quei giorni vivevamo sotto l’assedio delle parole dell’informazione e avevamo una fame inesauribile di altro».

L’attacco è forte, quasi un monito: “Ci dovevamo fermare”.

«È uno degli aspetti positivi della tragedia che stiamo vivendo. Il virus ci ha aperto gli occhi. Ci siamo accorti di essere incastrati in una corsa. Una corsa che ci condanna a vivere sulla superficie, ad andare sempre di fretta».

Il compito della poesia è anche farci guardare oltre?

«La poesia parla alla ragione ma anche a qualcosa che è al di là della nostra ragione. Sentivo che eravamo affamati di una parola che non comunica ma piuttosto rivela. La poesia sa risvegliare la nostalgia di un senso profondo».

Nella sua nuova raccolta “Quando non morivo”, pubblicata da Einaudi, parla spesso al plurale. Dice “siamo” e include la natura e gli animali.

«I miei momenti di maggiore felicità hanno a che fare con un senso di consonanza con tutto quello che mi circonda. Sono tenuta in vita dall’acqua, dalla luce, dalle piante, dagli animali. Ho bisogno di sentirmi parte di tutto questo».

In Nove marzo dice: “Tutta la specie la portiamo in noi”.

«È così, diminuire il proprio “io” avvicina alla felicità».


(La Repubblica, 11 settembre 2020)



Nove marzo duemilaventi


di Mariangela Gualtieri


Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti

ch’era troppo furioso

il nostro fare. Stare dentro le cose.

Tutti fuori di noi.

Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare

e non ci riuscivamo.

Andava fatto insieme.

Rallentare la corsa.

Ma non ci riuscivamo.

Non c’era sforzo umano

che ci potesse bloccare.

E poiché questo

era desiderio tacito comune

come un inconscio volere –

forse la specie nostra ha ubbidito

slacciato le catene che tengono blindato

il nostro seme. Aperto

le fessure più segrete

e fatto entrare.

Forse per questo dopo c’è stato un salto

di specie – dal pipistrello a noi.

Qualcosa in noi ha voluto spalancare.

Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.

E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.

Forse ci sono doni.

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

C’è un molto forte richiamo

della specie ora e come specie adesso

deve pensarsi ognuno. Un comune destino

ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.

O tutti quanti o nessuno.

È potente la terra. Viva per davvero.

Io la sento pensante d’un pensiero

che noi non conosciamo.

E quello che succede? Consideriamo

se non sia lei che muove.

Se la legge che tiene ben guidato

l’universo intero, se quanto accade mi chiedo

non sia piena espressione di quella legge

che governa anche noi – proprio come

ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo

tenersi insieme di tutto in un ardore

di vita, con la spazzina morte che viene

a equilibrare ogni specie.

Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,

guidata. Non siamo noi

che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola

ci dice ora di stare a casa, come bambini

che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,

e non avranno baci, non saranno abbracciati.

Ognuno dentro una frenata

che ci riporta indietro, forse nelle lentezze

delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,

tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta

il pane. Guardare bene una faccia. Cantare

piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta

stringere con la mano un’altra mano

sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.

Un organismo solo. Tutta la specie

la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta

di un palmo col palmo di qualcuno

a quel semplice atto che ci è interdetto ora –

noi torneremo con una comprensione dilatata.

Saremo qui, più attenti credo. Più delicata

la nostra mano starà dentro il fare della vita.

Adesso lo sappiamo quanto è triste

stare lontani un metro.

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