Parlano giovani donne invogliate ad intervenire dalla lettura di “Mia madre femminista”
Durante le presentazioni del libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015) alcune giovani hanno partecipato con scritti, interventi introduttivi e dal pubblico, mostrando un modo originale di intendere e dare continuità all’essere femminista, un modo imprevisto e da noi desiderato.
Il testo di Gemma è la sua presentazione in occasione dell’incontro a Foggia il 3 dicembre 2015 ed è il terzo che pubblichiamo. Della parte finale dell’incontro esiste un filmato su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=LZ-kMKbiCco
Luciana e Marina
di Gemma Pacella, studente universitaria.
C’è stato un prima e un dopo del mio rapporto con il libro Mia madre femminista. Un prima durante il quale, leggendo l’indice e i nomi di Luisa Muraro, Lea Melandri, Clara Jourdan, Lia Cigarini, Sara Gandini, Maria Grazia Campari, Marirì Martinengo, María Milagros Rivera Garretas e delle altre donne che hanno firmato alcune brillanti pagine del libro, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un saggio, un genere con cui ero già abituata a confrontarmi.
Poi mi è sembrato un romanzo epistolare: il filo della narrazione è condotto attraverso due lettere scambiate tra una madre e una figlia, a cui si aggiungono le testimonianze di altre donne, più due uomini.
Ma ad esse s’intrecciano, come in un diario, foto, confidenze, racconti di giornate, emozioni. Chi legge si sente parte di un mondo, di una rivoluzione che ha segnato la vita di tante e cambiato la storia per sempre. Ricordo che anch’io, fino a pochi anni fa, passavo il mio diario alle mie compagne e loro ci appuntavano pensieri e racconti e s’inserivano nelle mie confidenze affiancandoci le loro. Era uno scambio: io ricevevo qualcosa da loro, e loro qualcosa da me. Lo stesso valeva per le foto, che non mancavano mai di arricchire quelle pagine.
Così, Mia madre femminista.
Uno scambio, un dono reciproco tra chi legge e chi scrive.
Basterebbe questa sensazione di stretta e intima confidenza per confermare quel dopo, quel momento in cui mi sono resa conto che il libro mi ha cambiata.
Mi spiego meglio: il titolo di questo libro è la dichiarazione della mia genealogia di ragazza ventiseienne che prova a dirsi femminista oggi, mentre ancora osserva e prova a relazionarsi con le pratiche di tante altre donne che nella mia città, Foggia, forgiano legami e creano stimoli culturali, artistici, politici. Penso alle amiche dell’Associazione Donne in rete, alle tante donne e uomini del Circolo La merlettaia, a Katia Ricci, mia indimenticabile professoressa del liceo, che ancora oggi ispira il mio modo di significarmi donna, ad Antonietta Lelario, che mi sta insegnando l’autenticità e l’onestà dei miei pensieri.
E in particolare penso a mia madre, Lina Appiano e al legame inscindibile e primario con tutto ciò che mi ha mostrato e al suo modo di agire nel mondo rompendo gli schemi maschili e patriarcali.
I loro preziosi doni hanno rappresentato un modo per chiarire a me stessa chi ero e da dove venivo, forse mi mancava il dove andavo.
Nonostante la mia giovane età, spesso, ho avuto la paradossale sensazione di sentirmi più simile alle madri che alle figlie. L’incontro con la loro differenza, prima ancora che dai libri l’ho appresa dall’esperienza che ha segnato la mia crescita e la mia consapevolezza di donna.
Però assumere il loro punto di vista, imparare la loro pratica e agire seguendo quel modello mi pareva, a volte, inaccessibile perché, di fatto, non mio.
Spesso ho provato un pizzico di gelosia per non aver vissuto gli eventi degli anni Settanta: l’autocoscienza, scendere in piazza per la depenalizzazione dell’aborto, formare i primi collettivi di ragazze e donne, come racconta la ricca documentazione del libro. Pensavo al coraggio di quelle giovani donne, all’enormità della loro rivoluzione e sentivo crescere un senso di soggezione.
Poi, è successo che, riflettendo sulle storie descritte nei capitoli Le parole per dirlo, Noi e il nostro corpo, Le tre ghinee, mi sono collocata da una prospettiva da cui io non mi ero mai guardata: sono figlia, come lo erano le donne che si sono confidate tra quelle pagine, che hanno espresso le loro paure, la loro passione nel creare spazi di relazioni per se stesse. Ho riconosciuto loro autorità e mi sono presa la mia autorità.
Scrive Liliana Rampello: «Una relazione di questo genere si fonda sul riconoscimento che l’altra è più grande di te (non sempre per generazione), sulla capacità di ammirarla perché il suo esserci apre la stessa possibilità anche a te»[1].
L’esserci delle ragazze di ieri ha significato la possibilità di creare il mio spazio ed entrare in autentica relazione con loro: io accetto il dono e scopro come posso utilizzarlo per me, per la mia libertà e perché io trovi il mio modo di pensarmi e di agire. Ritorna lo scambio, la traditio di cui beneficio. Realizzo che autorità non significa emulare e conformare il modo di agire alla pratica delle madri. Posso, invece, determinare il mio modo di essere e di significare me stessa e la mia differenza di donna, a partire da ciò che mi hanno mostrato, come hanno fatto loro. Il senso di soggezione si dissolve ed io mi sento parte della mia genealogia. Penso al rapporto saldo e all’intreccio ben stretto tra madri e figlie e mi viene in mente una porta scorrevole dell’architettura giapponese e il simbolo che rappresenta nel passaggio da una stanza all’altra di una casa. Un movimento di apertura e di chiusura non definitivo, come, invece, è il tira e spingi occidentale. Tra il femminismo delle madri e quello di noi figlie c’è un cambiamento, un passaggio, ma non brusco e soprattutto non interruttivo, bensì di accompagnamento.
Io non ho numeri o statistiche[2] per dire se le mie coetanee ventenni o trentenni riescano a significare la loro differenza di giovani donne[3], però vedo una luce negli occhi di tante, che si accende quando c’è bisogno di forgiare una solida trama di relazioni e una comune insistenza nelle cose, cioè assumere un atteggiamento, inserirsi in dibattito pubblico, prendere decisioni . Ricordo quando mia madre mi diceva guarda la luce nelle altre, negli altri e questo, per me è stata una rivelazione. Voglio dire non sempre siamo coscienti che il nostro agire di giovani donne sia un agire femminista, ma c’è sempre un momento in cui questo semplicemente si mostra. Quel momento è magico.
Ne parlavo con un’amica, qualche sera fa. Lei mi ha chiesto se io mi dichiarassi femminista. Lì per lì le ho risposto che non mi capita spesso.
Eppure quella domanda mi ha fatto riflettere: autodefinirsi è un primo passo, perché innanzitutto fa emergere la consapevolezza di collocarsi da una prospettiva, riconoscerla, negoziarla, mediarla nel rapporto con le altre e gli altri e, soprattutto, con me stessa. Mette in luce un desiderio prezioso, una volontà che va assecondata e interrogata, esplorata: «Lo so perché lo sono»[4], ha detto Luisa Muraro, in un altro contesto. Prendo in prestito le sue parole e dichiaro: io lo so che il femminismo c’è, perché lo sono, perché se mi tocco, lo sento dentro e fuori di me.
[1] Liliana. Rampello, L’altra che ti vede, in Mia madre femminista, p. 54.
[2] Al contrario, Antonella Cammarota ha realizzato delle interviste a ragazze e donne adulte, interrogandole su cosa significhi la parola femmina, donna e femminista, in Il femminismo e la ricerca di identità, in http://ww2.unime.it/donne.politica/materialedidattico/06giugno/1.%20CAMMAROTA_Femminismo%20e%20identità%20di%20genere.pdf.
[3] Si veda L’Espresso, Le donne hanno perso, 15 ottobre 2015. E sul Corriere della sera diversi articoli in tal senso di Maria Laura Rodotà e Susanna Tamaro.
[4] Luisa. Muraro, Lo so perché lo sono, Via Dogana, settembre 2010, p. 4.