26 Marzo 2022
Avvenire

La scrittrice. Yasmina Reza: «Andiamo ad Auschwitz, con il dubbio che possa rivivere»

di Daniela Pizzagalli


È il fratello maggiore il titolare del nuovo romanzo di Yasmina Reza Serge (Adelphi, pagine 186, euro 19,00) ma a raccontare è Jean, «quello di mezzo», che per destino e per vocazione fa da tramite fra «lo spericolato primogenito» e «Nana, la Cocca di mamma e papà». Quale dei tre fratelli Popper ha ideato per primo? Chiediamo all’autrice, arrivata in Italia per la presentazione del libro. «Il primo è stato Serge, ma ho subito pensato di affidare la voce narrante a un fratello, una soluzione più empatica rispetto al distacco dell’autore-narratore». La capacità d’immedesimazione appartiene profondamente a Yasmina Reza, la scrittrice parigina d’origine ebraica, figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese, che si è affermata come drammaturga prima di cimentarsi nella narrativa. A soli ventiquattro anni, già attrice di teatro, nel 1983 ha esordito con la pièce Conversation après un enterrement vincendo il premio Molière, e ha poi collezionato premi per la drammaturgia a livello internazionale, con Art del 1994, rappresentato anche a Brodway, e con Il dio del massacro del 2007 portato sullo schermo da Roman Polanski nel 2011, col titolo Carnage. «Non pensavo alla narrativa – ci racconta – però scrivevo per me delle paginette di osservazioni su persone che conoscevo, o sui miei figli, cose brevi, quasi come fotografie scritte, e quando il mio editore nel 1997 mi ha chiesto se avevo qualcosa nel cassetto gliele ho date, non prevedendo il suo entusiasmo e l’immediata pubblicazione di Hammerklavier, un titolo musicale per il mio primo libro di racconti, non più disponibile in italiano, ma che Adelphi pubblicherà presto». Dopo il felice esordio nella narrativa, ha alternato ai drammi anche vari romanzi come Una desolazione del 1999, fino ai recenti Felici i felici del 2013 e Babilonia del 2016. L’avvenimento centrale di Serge è un viaggio ad Auschwitz compiuto dai tre fratelli per accontentare la ventenne Joséphine, figlia di Serge, attirata da un turismo della memoria sulle tracce dei nonni ungheresi, mai conosciuti, vittime della Shoa. «Auschwitz – afferma Reza – è diventata ormai una meta turistica, l’omologazione del turismo tende ad annullare le differenze. L’idea del romanzo mi è venuta pensando a una famiglia ebrea la cui gita ad Auschwitz viene messa in crisi dalla deflagrazione di un litigio e da un conflitto generazionale». A suscitare il dramma familiare è il dirompente Serge, «il re delle attività nebulose», che ha procacciato al nipote Victor, aspirante chef, uno stage in un albergo svizzero, e quando Victor gli scrive di non gradire l’offerta, s’infuria a tal punto da provocare una rottura in famiglia. Yasmina Reza crea sempre personaggi dalle mille sfaccettature, sa essere feroce e compassionevole nello stesso tempo: «Serge ha buone intenzioni, ama sentirsi utile – ci dice – ma non fa nessuno sforzo per capire le esigenze altrui, anche quando cerca un appartamento per Joséphine vuole imporre quello che piace a lui». Il malumore di Serge è anche un segnale dell’età che avanza: «Sai che la vecchiaia arriva da un giorno all’altro? – dice a Jean – Un giorno ti svegli e non riesci più a rimetterti in sesto, la vecchiaia ti salta alla gola…». La vecchiaia, la malattia e la morte sono i temi di fondo del romanzo, temi ultimi, temi seri che l’autrice riesce a rendere con calibrata iro- e rispettosa leggerezza, come avviene nel personaggio di Maurice, il cugino quasi centenario, ex bon vivant relegato a letto ma che non rinuncia al suo «champagnino». Nel romanzo Maurice è l’araldo di questi tre temi, con cui anche i fratelli dovranno poi misurarsi. «Anche a me piace molto Maurice e come si confronta con la vecchiaia, la malattia e la morte. Sono i temi ricorrenti in tutte le mie opere, a partire dal mio primo dramma, Conversazione dopo un funerale, in quel caso sulla morte del padre». Anche in Serge sono i rapporti familiari a fare da argine contro l’incombere della fine: «Accettiamo che la vita sia una faccenda di solitudine – dice Jean – fintanto che c’è un futuro». E sarà lui a far riavvicinare Serge e Nana, nonostante i due lo accusino di essere «il paladino di insulsi valori familiari». Jean accetta le critiche dei fratelli, addirittura dà ragione a Nana che lo definisce «uno sfigato», eppure è la colonna portante della famiglia. «È Jean che si denigra, ma io non lo vedo così. Jean non ha stima di sé, perché non ha abbastanza forza di volontà per farsi una famiglia, resta in bilico. Ci sono molti uomini così, che si sottovalutano, che hanno la sensazione di essersi persa la loro ‘ vera vita’, ripiegando su un’idea di fallimento personale». La differenza tra i due fratelli appare evidente anche nella scelta dei libri che si portano da leggere durante il viaggio ad Auschwitz: Jean I sommersi e i salvati di Primo Levi, Serge Il blasfemo di Singer. «Ciascuno di noi si era portato il proprio frammento di storia ebraica», commenta Jean. E l’autrice spiega: «Entrambi hanno scelto libri di autori ebrei, ma la scelta di Jean rispecchia un uomo di cultura, infatti lui è un buon lettore, uno che viene da studi scientifici e si vuol documentare, Serge invece è portato ai valori materiali, dice: ‘Sai cosa mi piace di Singer? Lo spazio che dà a tutti i piatti che mangiano i personaggi’. Ma attenzione a non semplificare troppo, i personaggi non si riducono alle loro letture» Ciascuno di loro ad Auschwitz cerca se stesso, solo Nana sembra esprimere la posizione convenzionale del turista della memoria. «Nana c’è andata per un dovere morale, si compiace di assorbire buoni sentimenti». Di agghiacciante attualità lo scambio di battute tra Nana e Jean: «Com’è possibile che degli uomini abbiano fatto una cosa del genere? È inconcepibile». «È concepibile invece. E succede ancora, sai».


(Avvenire, 26 marzo 2022)

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