10 Novembre 2021
Il Quotidiano del Sud

La stanza numero 30 di Ilda Boccassini

di Franca Fortunato


Varcare la soglia dei settant’anni, quando il passato è più del futuro, andare in pensione, fare bilanci, tirare le fila di una vita, trasferire i ricordi dalla memoria alla scrittura, è quello che fa Ilda Boccassini nel suo libro “La stanza numero 30 – Cronache di una vita” (Feltrinelli), ripercorrendo indietro nel tempo 40 anni di gioie e dolori, sprazzi di felicità e momenti di abisso. Da quella stanza, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, dove arrivò giovanissima dalla sua Napoli con un figlio piccolo, ha portato avanti le sue indagini, celebrato processi, diventando incubo e bersaglio per mafiosi, corrotti e corruttori, politici potenti come Silvio Berlusconi e Cesare Previti, magistrati sedotti dalle lusinghe del potere e del denaro. Quarant’anni di battaglie, di delusioni e sofferenze ma anche di conferme, soddisfazioni e solidarietà di tante donne e uomini. Sempre pronta, dalla medesima stanza, a respingere insulti, minacce di morte e di stupro, insinuazioni, false accuse, attacchi feroci, tentativi di delegittimazione, di rimozione, da parte di un potere politico economico e massmediale bestiale, che fa di tutto per “difendersi dal processo” fino a piegare il Parlamento agli interessi di una sola persona, Silvio Berlusconi, e a ricorrere a iniziative eversive come l’irruzione di 100 parlamentari del Popolo delle Libertà nel palazzo di giustizia durante il primo processo “Ruby”, al grido “persecuzione giudiziaria”. Il libro ha il grande merito, attraverso una delle protagoniste, di restituire alla memoria e alla coscienza collettiva un pezzo di storia del nostro presente e il clima di intimidazioni e di paura verso quei magistrati, come Ilda, colpevoli di non essere scesi, come altri, a compromessi con il potere. Quanta spregiudicatezza nella proposta di Berlusconi al Quirinale! È “Ilda la rossa”, dal colore dei suoi folti riccioli, “la selvaggia”, “l’indomita”, “l’inavvicinabile”, “l’incorruttibile”, la femminista dalle collane vistose, un modo “per spezzare la tristezza” e dire: “Se pensate di piegarmi, di spegnermi, vi sbagliate”. È Ilda, la donna bella e coraggiosa, fedele a se stessa che sfida i pregiudizi sulle donne in magistratura, che porta sempre gli occhiali da sole come difesa “prima da un ambiente che non conosceva” e “poi da una malvagità” che aveva “imparato a conoscere” insieme a gelosie, odio, invidie di chi cerca di colpevolizzarla quando lascia i figli a Milano per trasferirsi in Sicilia e indagare sulla strage di Capaci, come aveva promesso in quel freddo obitorio a Giovanni Falcone, il magistrato avversato in vita e glorificato da morto. Davanti a quel corpo straziato giurò a se stessa e a lui che avrebbe “fatto qualsiasi cosa perché il suo lavoro non andasse perduto”, che avrebbe “protetto la sua memoria”, che avrebbe “sempre agito in un modo che lo avrebbe reso orgoglioso” di lei. E così è stato, in nome di quell’amore “dell’anima” fatto di affetto sincero e profondo, di amicizia vera, stima e ammirazione smisurata, che la legava a lui da vivo e da morto. Un amore che commuove, di cui racconta con grande rispetto di sé e di Falcone, e con delicatezza per i morti e per i vivi. Ne scrive dopo trent’anni da quella morte per liberarsi “dai demoni” e potersi aprire alla vita che le resta da vivere, e così, pacificata con se stessa, può lasciarlo andare a riposare accanto a colei che la morte ha unito per l’eternità. Un libro bello, utile, che dedica «alle donne dell’Afghanistan e alla loro lotta per la libertà». A lei un grazie per la magistrata che è stata e per la donna che è ed è sempre stata.


(Il Quotidiano del Sud, 12 novembre 2021)

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