2 Novembre 2013
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La vita tagliente della provincia, secondo Elisabeth Strout

 

È scrittrice amatissima in Italia, Elisabeth Strout, da quando lettori e lettrici italiane l’hanno scoperta all’uscita di Olive Kitteridge , con cui ha vinto il Premio Pulitzer nel 2009. Nata nel Maine, stato statunitense del New England dove i suoi antenati approdarono nel 1603, vive tra New York e la sua terra, che è la sua vera fonte di ispirazione. Con il suo quarto libro, I ragazzi Burgess, assume sempre di più il profilo di autrice “classica”. Con una scrittura scarna e profonda indaga la vita quotidiana di una piccola città, l’incrocio terribile e inaspettato con i drammi del mondo contemporaneo e globale.

 

La storia del suo ultimo romanzo parte da un ragazzo che getta una testa di maiale dentro una moschea della sua città, dove da poco si è insediata una comunità di somali musulmani. Dove ha trovato l’ispirazione?

 

«La notizia letta anni fa su un giornale ha catturato la mia immaginazione. I fratelli Burgess proprio non so da dove vengano. I personaggi si impongono alla mia attenzione, a poco a poco diventano sempre più reali»

 

Ricordo che per Olive Kitteridge lei parlò di qualche somiglianza con alcune vecchie zie.

 

«È vero, in Olive ci sono alcuni aspetti di vari parenti. Ma per i fratelli Burgess non ho avuto modelli, anche se naturalmente mi è capitato di osservare interazioni tra fratelli. Devo dire che è stato straziante portarseli dietro tutto il tempo che ci è voluto a scrivere il libro, sono personaggi difficili. Molto faticoso, proprio in senso fisico. Come se mi mangiassero da dentro»

 

Pur con un personaggio centrale e ricorrente, “Olive Kitterige” era una raccolta di racconti. Perché ora ha scelto il romanzo?

 

«Mi sembrava che l’ampiezza delle emozioni, della geografia, dei temi richiedesse una struttura più grande. Ci si sposta tra il Maine, l’Arkansas, l’Arizona, nel conflitto tra città e campagna, questioni esplosive come il razzismo. Ci volevano le spalle ampie del romanzo»

 

Che ne pensa del premio Nobel assegnato a Alice Munro?

 

«È fantastico. Sono veramente contenta, è una grande scrittrice, che mi affascina. Negli anni lei è riuscita a creare un genere suo, una forma stilistica molto particolare a cui è rimasta fedele negli anni. E racconta la vita quotidiana di un microcosmo»

 

A proposito di microcosmo, il razzismo che lei racconta in un piccolo mondo, risulta esplosivo.

 

«Come si dice, il personale è politico. Ho indagato cosa succede quando temi così dirompenti, non sono fatti lontani, che avvengono altrove, ma entrano nella esperienza della vita quotidiana di tutti. In una piccola comunità. Le idee che uno può avere ne risultano sconvolte. Tutto cambia quando lo straniero è vicino a te, le proprie reazioni possono sorprendere»

 

Qual è il segreto della sua scrittura così luminosa?

 

«Scrivo e riscrivo. La prima stesura è a mano, mi sembra che corrisponda di più al ritmo dell’immaginazione. Poi correggo e riporto tutto al computer. Poi riscrivo ancora. Ci metto anni a scrivere un libro. Voglio raggiungere la coerenza tra il modo in cui è scritto e quello che racconta. E per questo ci vuole tempo»

 

Anche chi come me non è mai stato nel Maine, sente nei suoi libri la presenza molto forte di quel luogo, quello spazio. Quasi come se il Maine fosse un personaggio. Per lei questo ha senso?

 

«Sono l’erede di una lunga tradizione. Non solo la mia famiglia vive nel Maine da secoli, ma sia mia nonna che mia madre sono state delle grandi contastorie. Le ascoltavo. Ascoltavo mia madre, la sua voce molto asciutta, il suo stile molto minimalista, l’ho interiorizzata. Sì, penso che ci sia una voce del Maine nel mio raccontare»

 

Pensa che nello scrivere essere donna abbia un significato?

 

«Certo, sono una donna, penso come una donna e immagino che si veda anche nel mio modo di scrivere. Ma non è una cosa per cui mi scaldo molto. Non scrivo di questioni delle donne o cose del genere. Non mi interessa. Anche se questo fa arrabbiare molte mie amiche».

 

Come è arrivata a scegliere di scrivere?

 

«Per via di mia madre. Mi ha spinto lei. Lei desiderava profondamente diventare una scrittrice, e non c’è riuscita. Era in ogni caso una formidabile storyteller. Mi ha comunicato il suo desiderio, la sua passione».

 

 

Elisabeth Strout:

 

I ragazzi Burgess, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Roma 2013, 447 pagine, 18,50 euro

 

Olive Kitteridge, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Roma 2009, 18,50 euro

 

 

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