di Arianna Di Genova
Non sono capaci di pensare in una misura tridimensionale, solo bidimensionale, quindi l’architettura non fa per loro. La sentenza senza possibilità di appello fu decretata da Walter Gropius mentre le studentesse, entusiaste, si iscrivevano al Bauhaus. Attratte in gran numero dalle tesi enunciate nel manifesto della scuola – tra cui la sostanziale parità di genere – oltre che dallo stile esistenziale comunitario in una condivisione di spazi anche quotidiani fra docenti e «operai/e», le ragazze del Bauhaus in realtà si scontrarono con un pregiudizio storico. Spesso, lo introiettarono loro stesse, rendendosi invisibili da sole, seguendo i propri compagni nelle attività, sposandosi – moltissime furono le unioni fra «interni» – e affossando in solitudine i loro progetti al presentarsi della mutazione di status sociale.
Dopo il biennio di base, quelle che decidevano di continuare venivano indirizzate verso materie ritenute a loro consone, come la tessitura, la ceramica, la legatoria, pochissime alla falegnameria, vietata l’architettura fino all’avvento del nuovo direttore svizzero Hannes Meyer che preferì aprire le porte dei laboratori a tutti indistintamente (Lotte Beese ne approfittò e, alla fine della seconda guerra mondiale, contribuì alla ricostruzione di Rotterdam).
Le eccezioni ci furono e, per la verità, quelle officine di destinazione femminile furono il vero fiore all’occhiello della scuola, sia nella rivoluzione dei linguaggi utilizzati che nel campo economico, assicurando con la vendita di oggetti e una produzione in serie di artigianato di altissima qualità la sussistenza del Bauhaus in periodi non proprio rosei. Eppure, le docenti erano pagate meno dei loro colleghi maschi e le studentesse dovevano far fronte a tasse più alte, oltre che ai servizi di mensa e di manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro. Molte poi non hanno lasciato tracce dietro di sé, altre sono state mal considerate da chi ha costruito la narrazione ufficiale della storia delle arti dopo di loro.
Non è un caso, infatti, che l’autrice di 494 – Bauhaus al femminile, Anty Pansera, lamenti fin dall’apertura del suo libro (edito da Nomos, pp. 302, euro 24,90) le difficoltà incontrate nell’attendere al suo compito titanico, quello di recuperare le miriadi di biografie perdute: scarse informazioni, lacune, scomparse, eclissamenti volontari, inghiottimenti di artiste nella sfera maschile famigliare. Un atto di volontà incrollabile quindi quello di Pansera, che ricerca dopo ricerca, archivio dopo archivio, l’ha condotta a rimettere insieme le frammentate notizie intorno a quei percorsi sempre in lotta fra il buio e la luce.
Su 1400 frequentanti e insegnanti – provenienti in gran parte dalla Germania o dall’est, ma non mancavano americane e pure italiane come l’avellinese Maria Grazia Rizzo, in classe con Kandinskij – le donne erano rappresentate da quel numero 494 che troviamo in copertina del volume (per la precisione, 475 studentesse, undici docenti, sei «donne intorno a Gropius», una manager, una fotografa). Loro, come un po’ tutti i partecipanti a quell’avventurosa esperienza didattica, che era anche costellate di mitiche feste organizzate fin dai costumi da Schlemmer, non erano ben viste: Weimar – prima sede del Bauhaus che poi si sposterà a Dessau e per una brevissima parentesi a Berlino, riuscendo a resistere agli attacchi nazisti per un anno – era una piccola e tranquilla cittadina, non abituata a stravaganze né al look sbarazzino che molte sfoggiavano, con capelli corti o a caschetto e giacche di pelle usate e ricontestualizzate della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca.
Soffermandosi sui nomi, gli episodi narrati e le biografie raccolte, le sorprese sono molte. Si va dalle ribellioni nei laboratori per apporre il proprio nome ai prototipi destinati alle aziende tessili (registrando pure i diritti dei modelli) alla storia della letteratura per l’infanzia. Margret Rey detta Grete (nata Margarete Elisabeth Waldstein), dopo aver lasciato la scuola e aver lavorato come pubblicitaria alla Crawford’s, girovagando tra Parigi e Rio de Janeiro con il marito – entrambi erano ebrei e in fuga dal nazismo – darà vita in coppia a Curious George, uno dei protagonisti nei racconti per bambini/e più conosciuti al mondo.
Margaretha Reichardt entrò al Bauhaus 19enne, frequentò l’officina di tessitura ma anche quella di falegnameria, oltre a corsi di Klee e Moholy Nagy. Disegnò meravigliosi giocattoli in legno che negli anni successivi furono scelti per una produzione industriale e realizzò un filo di cotone cerato di grande resistenza che verrà utilizzato su larga scala. Sarà lei poi la creatrice dello speciale tessuto per i rivestimenti degli arredi: la sua «tappezzeria» andrà a ricoprire la celebre sedia Wassily di Breuer.
Quando Annelise Else Frieda (conosciuta come Anni Albers, dal cognome del marito e docente) arrivò al Bauhaus, dovette riavvolgere il nastro del suo aristocratico stile di vita adattandolo a una realtà ben più umile. Lo farà comunque benissimo, diventando «la padrona del telaio», poi insegnando teoria del design e affiancando la leggendaria Gunta Stölzl nelle attività (non riuscì invece a entrare nel laboratorio di pittura su vetro di Albers che però, in seguito, sposerà). Sperimentava sui materiali e le stoffe, propendendo per tessuti che assorbissero luce e suoni. Approdata in America all’avvento di Hitler, divenne docente al Black Mountain College e anni dopo, nel 1949 il MOMA le dedicò una mostra monografica, cosa non scontata per una artista del ramo «tessile».
L’albero del Bauhaus femminile è pieno di ramificazioni e grondante di stupefacenti frutti. E nonostante l’ingombrante presenza di Gropius, va ricordato che fu proprio sua moglie – Ise Frank, la cui storia, in forma romanzata, è narrata nel libro di Jana Revedin per Neri Pozza – a diventare, con i suoi scritti e conferenze, la migliore promoter nel mondo di quella scuola d’avanguardia, invisa al potere.
(Alias-il manifesto, 5 febbraio 2022)