19 Marzo 2008
la Repubblica

L’ambigua Carson

 Il cuore del Grande paese Ristampato il libro d’ esordio della McCullers. Era una specie di bambina prodigio e scrisse all’ inizio cose piuttosto stravaganti. La scrittrice (1917- 1967) che adorava i deformi è tutta da riscoprire. La sua apparenza androgina affascinò fotografi come Dahl-Wolfe e Richard Avedon A Brooklyn andò a vivere in una specie di comune e divenne amica di Auden e Britten

Nadia Fusini
Quando scrive Il cuore è un cacciatore solitario (che ora riappare nella collana Stile Libero di Einaudi, traduzione di Irene Brin, introduzione di Goffredo Fofi, pagg. 368, euro 11,80), Carson McCullers ha appena ventitré anni. E da questo punto di vista, puramente anagrafico, il risultato è straordinario. Apre attese di capolavori a venire. Tanto che la promessa della casa editrice Einaudi di iniziare con questo romanzo giovanile la pubblicazione di tutta l’ opera della scrittrice americana, nata nel 1917, morta nel 1967, ci fa molto piacere. Non abbiamo dubbi che McCullers sia una scrittrice notevole; anche se non concordiamo del tutto con l’ affermazione esagerata, strillata in quarta di copertina, che con questo romanzo, e con i romanzi di Flannery O’ Connor, sia cambiato il corso della letteratura americana. Ma se l’ invito è a ragionare della letteratura americana a partire da questo romanzo, volentieri lo accettiamo. Perché non c’ è paese che più dell’ America si identifichi con la propria letteratura. O diciamo meglio, non c’ è paese che la letteratura, e dunque i suoi scrittori abbiano servito meglio, vegliando sulla sua coscienza, criticandolo con spirito libero, e insieme amandolo senza riserve. D’ altra parte, il paese ha ricambiato i suoi scrittori. Ditemi di un altro luogo al mondo dove con le più varie forme di fondazioni si sostenga chi voglia dedicarsi alla letteratura. McCullers stessa godette di lunghi periodi passati a Yaddo, una colonia per scrittori a Saratoga Springs, dove visse e scrisse e riposò e incontrò altri come lei. Amici e nemici importanti. Per Carson McCullers, Yaddo e le varie forme pubbliche di sostegno al suo ruolo furono fondamentali. Non soltanto per ragioni economiche, ma perché le servirono a costruire la propria identità intorno al gesto in cui si manifestava la sua passione. In ogni altro senso, l’ identità di Carson è ambigua; nasce donna, ma non si identifica alla propria identità di genere, le piacciono gli uomini, ma ama soprattutto le donne, e rimane fondamentalmente fino alla fine, se non una bambina, una adolescente. Adora i deformi, i ritardati, gli anormali; insomma, i capricci della natura, quelli che chiama “freaks”. Spiega: la maggior parte della gente passa la vita nel terrore di avere esperienze traumatiche, il freak convive con il trauma fin dalla nascita. Quanto a sé, in molti modi accentua la sua apparenza androgina, che affascinò fotografi come Louise Dahl-Wolfe e Richard Avedon. Sta di fatto che già nel cuore si accampa con ruolo di protagonista e potenza allegorica il sordomuto Jack Singer. Ma vi compare anche il sentimento autentico della fatica e della sofferenza dei poveri e dei diseredati, il marxista bianco Blount, il medico nero Copeland. Dalla casa in cui era nata, a Columbus, in Georgia, che apparteneva alla nonna materna, e affacciava sulla strada che portava alle fabbriche del cotone, fin da bambina Carson vedeva passare mattina e sera gli operai che andavano e tornavano dal lavoro. Fu allora che nacquero in lei certe tendenze diciamo così “operaiste”? O se non altro, una fortissima simpatia proletaria? Il motivo autobiografico è sempre presente, in ogni suo scritto. E se non è autobiografico il motivo, sono ricordi veri il caldo, la fiamma della luce estiva, la noia, la monotonia, la pena delle piccole città meridionali, dove l’ anima imputridisce nella noia. Chi vive lì, sogna incantato la neve – sogno che con lei un altro scrittore sudista condivide (oppure, la copia?) Truman Capote. Lula Carson Smith – così nasce Carson – è un Wunderkind, un prodigio. I genitori l’ assecondano nelle sue fantasie di eccellenza: immagina di diventare una grande pianista e i genitori le comprano il piano. Cambia idea, e il padre subito provvede a comperare una macchina da scrivere. Ora che ha la macchina da scrivere, Carson si lancia nella carriera letteraria senza timori e scrive un racconto, Il fuoco della vita, con due personaggi; uno è Gesù, l’ altro è Nietzsche. E comincia un romanzo, su un musicista di jazz di New York, il quale vende l’ anima al diavolo. Non ha mai visto New York, ma inventa a ruota libera. Inventa, ad esempio, che per la metropolitana si compri un biglietto dal conducente, più o meno come per salire sul bus. L’ agente letterario, a cui l’ ha spedito, meravigliato le rimanda il manoscritto e le fa presente l’ incongruenza, ma lei non si scompone. E si dedica a un secondo romanzo; questa volta imita D.H.Lawrence. Siccome va pazza per Eugenie O’ Neill, scrive tre drammi uno dopo l’ altro, e li inzeppa di tutto quello che le viene in mente: incesto, pazzia, delitti. Situa la prima scena direttamente in un cimitero, nell’ ultima, tra le suppellettili, impone un catafalco. Poi un giorno legge l’ autobiografia di Isadora Duncan. E subito plagiata proclama a chiare lettere in famiglia che lei non si sposerà. Non vuole mariti, ma amanti. E spiega ai genitori adoranti che deve partire: con tutto quello che ha in testa non si può fermare a Columbus, Georgia; deve andare “abroad”. All’ estero. Arriva a New York. E si trova a vivere a Brooklyn in una specie di comune, i cui pilastri fondanti sono per l’ appunto lei e l’ amico George Davis, mondanissimo editor di Harper Bazaar. A questa “vie de Bohème” si aggregano W.H.Auden, Benjamin Britten e Louis MacNiece. E partecipano Leonard Bernstein, Virgil Thomson, Salvador Dalì, Denis de Rougement, Truman Capote, Anais Nin, artiste dello spogliarello ecc.ecc. E’ una fuga? un’ evasione? E’ in realtà il modo concreto in cui Carson sperimenta alive uno dei grandi temi della letteratura americana: flight, escape sono, in effetti, due termini senza i quali non si potrebbe descrivere la civiltà di quel paese. Dalla fuga dall’ Europa dei pilgrim fathers sono nati gli Stati Uniti d’ America; dall’ evasione verso gli spazi sconfinati del West nascono i valori americani della frontiera, che conosciamo grazie ai western. La verità è che l’ azione di fuggire per salvarsi, implicita nei termini flight e escape, riguarda nella sua essenza l’ individuo americano, la sua coscienza puritana. Per tale individuo nell’ orizzonte della fuga si apre la via della salvezza; come a dire, la fuga non è diserzione, è conquista di nuovi spazi e territori, anche interiori. E la salvezza personale si realizza con la testimonianza qui e ora, in questo mondo, della necessità della giustizia. Intesa come il problema dell’ essere giusti. E giustificati nelle proprie opere dalla propria coscienza. Questo vale anche per i personaggi del Cuore, che all’ inizio si chiamava Il muto. Così avrebbe voluto intitolarlo Carson, ma il suo editore fu più bravo e trovò un titolo che è una delle ragioni del successo, nel “cuore” e nella “solitudine” indicando le due realtà a cui la sensibilità della giovanissima scrittrice rimarrà per sempre fedele. Insieme al senso doloroso di una disumana verità, che la ragazzina bianca del romanzo condivide con il mondo degli “schiavi” neri liberati nei fatti, ma ancora perseguitati per antico pregiudizio: non esiste l’ eguaglianza. Carson McCullers è bianca e cresce in uno stato del Sud profondamente tormentato dall’ ingiustizia della schiavitù. E ne patisce la colpa. Richard Wright, lo scrittore nero che ha appena pubblicato il romanzo autobiografico Native Son (da noi tradotto con Paura), le tributò un grande onore, quando le riconobbe che aveva saputo rappresentare la condizione esistenziale e le ragioni dei neri. Parlò di “grande umanità”. Ma del resto, la letteratura americana questo esercizio lo sa fare, quando è davvero grande; si veda la fuga insieme di Huck il bianco e Jim il nero nel più meraviglioso romanzo americano su questo tema, Huckleberry Finn. Quel che colpisce, nel caso di McCullers (come nel caso di Truman Capote, che le fu prima amico, poi nemico), è la piega particolare che tale sensibilità, che potremmo definire sudista, sudista abolizionista, sudista progressista, ma pur sempre sudista, prende. E cioè, come essa tramuti in un’ attitudine queer, in tutte le accezioni del termine, le più antiche e le più moderne. Intendo dire che lo scrittore, in entrambe le incarnazioni offerte da Capote e McCullers, dimostra un feticismo della devianza che lo stringe in morbosa, appassionata empatia con ogni genere di devianza dalla normalità. E’ il lato Dostoevskij della sua personalità. O il lato Arbus dell’ attrazione per l’ irregolare. Nel caso particolare di Carson McCullers coloro che l’ amarono testimoniano come nel corso degli anni si fece smodata la richiesta di attenzione, come crescesse l’ avidità di piaceri, che non sapeva cogliere, se non in modo per l’ appunto smodato. E autodistruttivo. Se amò in modo appassionato il mondo del cinema e del teatro, fu anche per questo aspetto: avrebbe voluto essere una star. Avrebbe voluto essere una queen. E in un certo senso lo fu, queen e queer. Ma fu soprattutto un eroe della scrittura. Che affermò con sicurezza che non c’ è niente di umano, che lo scrittore possa allontanare da sé: se esiste al mondo un uomo umiliato, perseguitato, oltraggiato, ecco, allora ci deve essere uno scrittore che sappia identificarsi con lui, e ricrearlo. E dargli la parola. Anche, soprattutto, quando sia muto. Perché per lo scrittore la parola salva.

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