18 Giugno 2022
Il Quotidiano del Sud

L’antimafia delle donne

di Franca Fortunato


Metti che donne di Palermo, Partinico, Corleone, Napoli, Locri, Roma, impegnate da anni nella lotta alle mafie si ritrovino, sollecitate da altre, a riflettere, scrivere e raccontare le pratiche politiche che le hanno viste, e le vedono, protagoniste di un’antimafia diversa da quella degli uomini, quello che ne viene fuori è un racconto corale di esperienze e pratiche di donne che, pur diverse per generazione, professioni e scelte di vita, sono accomunate dalla consapevolezza che ognuna di loro, come ognuna di noi, con la mafia c’entra, anche se non sono vittime o parenti di vittime di mafia, o appartenenti a famiglie mafiose. È quello che viene fuori leggendo il libro Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, curato da Alessandra Dino e Gisella Modica, promotrici del progetto, e pubblicato da Mimesis. Un libro che ci racconta di donne che hanno fatto della loro professione di giornaliste, scrittrici, ricercatrici universitarie, insegnanti, della loro passione e amore per la vita e per le donne come volontarie nei Centri antiviolenza, in “Libera” e nella Casa Memoria di Felicia Impastato, uno strumento “altro” di lotta alle mafie. Una storia individuale e collettiva nella Palermo degli anni ’70 e ’80 passando per le stragi di Capaci e via D’Amelio del ’92, che ha cambiato la vita di molte e ha visto le donne e chi era cresciuta nella paura della mafia, «paura di percorrere le strade e poter essere colpita per caso, o di vedere qualcosa per sbaglio ed essere punita», protagoniste di invenzioni creative come i lenzuoli sbiancati del sangue di mafia, esposti ai balconi per dire «Non sto dalla vostra parte. Non contate su di me», o il digiuno con l’adesivo, un piattino giallo appeso al collo con scritto «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». Storia narrata alle proprie alunne e alunni da chi ne fu protagonista o testimone, per trasmettere una «memoria attiva, che si fa viva e palpitante, che si manifesta in azioni concrete». Donne che si mettono in gioco, a partire da sé, nell’incontro con altre donne, ne raccolgono i racconti, ne scrivono libri che loro o altre leggono alle proprie alunne e alunni, alcuni figlie/i di mafiosi. C’è l’antimafia “spettinata” “squattrinata”, “sciattona” di chi dirige una rivista portando orgogliosamente avanti il testimone di Pippo Fava, ucciso dalla mafia. C’è chi vive in un quartiere popolare accanto a una donna il cui marito è in carcere da anni e le due si parlano da donna a donna e «convengono che la vita che ha fatto il marito l’ha portato» a non «godersi la sua famiglia, la moglie e i figli». C’è chi scopre di dover fare i conti con un nonno che ama tanto e che è stato un mafioso. Donne che, bambine nel ’92, conoscono la mafia «dalla storia dei morti ma è attraverso chi è rimasto vivo» che incontrano «la sofferenza e la perdita» o chi incontra la ’ndrangheta nel racconto della nonna dell’uccisione del nonno, maresciallo dei carabinieri, e «negli sguardi fieri delle madri che chiedono verità e giustizia per i loro figli» e di cui scrive la storia. È l’antimafia delle donne, che a Palermo sente che «le ferite» del ’92 «si riaprono ogni qualvolta si svelano corruzioni, misteri irrisolti, complicità politiche, mandanti ed esecutori rimasti impuniti non solo per i delitti e le stragi di quegli anni, ma anche quando ci rendiamo conto che troppe sono le protezioni e le connivenze». Ferite che il risultato delle amministrative, col ritorno in campo di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, condannati per mafia, temo riaprirà e che rende questo libro ancora più prezioso, da leggere e fare leggere.


(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2022)

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