di Franca Fortunato
Metti che donne di Palermo, Partinico, Corleone, Napoli, Locri, Roma, impegnate da anni nella lotta alle mafie si ritrovino, sollecitate da altre, a riflettere, scrivere e raccontare le pratiche politiche che le hanno viste, e le vedono, protagoniste di un’antimafia diversa da quella degli uomini, quello che ne viene fuori è un racconto corale di esperienze e pratiche di donne che, pur diverse per generazione, professioni e scelte di vita, sono accomunate dalla consapevolezza che ognuna di loro, come ognuna di noi, con la mafia c’entra, anche se non sono vittime o parenti di vittime di mafia, o appartenenti a famiglie mafiose. È quello che viene fuori leggendo il libro Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, curato da Alessandra Dino e Gisella Modica, promotrici del progetto, e pubblicato da Mimesis. Un libro che ci racconta di donne che hanno fatto della loro professione di giornaliste, scrittrici, ricercatrici universitarie, insegnanti, della loro passione e amore per la vita e per le donne come volontarie nei Centri antiviolenza, in “Libera” e nella Casa Memoria di Felicia Impastato, uno strumento “altro” di lotta alle mafie. Una storia individuale e collettiva nella Palermo degli anni ’70 e ’80 passando per le stragi di Capaci e via D’Amelio del ’92, che ha cambiato la vita di molte e ha visto le donne e chi era cresciuta nella paura della mafia, «paura di percorrere le strade e poter essere colpita per caso, o di vedere qualcosa per sbaglio ed essere punita», protagoniste di invenzioni creative come i lenzuoli sbiancati del sangue di mafia, esposti ai balconi per dire «Non sto dalla vostra parte. Non contate su di me», o il digiuno con l’adesivo, un piattino giallo appeso al collo con scritto «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». Storia narrata alle proprie alunne e alunni da chi ne fu protagonista o testimone, per trasmettere una «memoria attiva, che si fa viva e palpitante, che si manifesta in azioni concrete». Donne che si mettono in gioco, a partire da sé, nell’incontro con altre donne, ne raccolgono i racconti, ne scrivono libri che loro o altre leggono alle proprie alunne e alunni, alcuni figlie/i di mafiosi. C’è l’antimafia “spettinata” “squattrinata”, “sciattona” di chi dirige una rivista portando orgogliosamente avanti il testimone di Pippo Fava, ucciso dalla mafia. C’è chi vive in un quartiere popolare accanto a una donna il cui marito è in carcere da anni e le due si parlano da donna a donna e «convengono che la vita che ha fatto il marito l’ha portato» a non «godersi la sua famiglia, la moglie e i figli». C’è chi scopre di dover fare i conti con un nonno che ama tanto e che è stato un mafioso. Donne che, bambine nel ’92, conoscono la mafia «dalla storia dei morti ma è attraverso chi è rimasto vivo» che incontrano «la sofferenza e la perdita» o chi incontra la ’ndrangheta nel racconto della nonna dell’uccisione del nonno, maresciallo dei carabinieri, e «negli sguardi fieri delle madri che chiedono verità e giustizia per i loro figli» e di cui scrive la storia. È l’antimafia delle donne, che a Palermo sente che «le ferite» del ’92 «si riaprono ogni qualvolta si svelano corruzioni, misteri irrisolti, complicità politiche, mandanti ed esecutori rimasti impuniti non solo per i delitti e le stragi di quegli anni, ma anche quando ci rendiamo conto che troppe sono le protezioni e le connivenze». Ferite che il risultato delle amministrative, col ritorno in campo di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, condannati per mafia, temo riaprirà e che rende questo libro ancora più prezioso, da leggere e fare leggere.
(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2022)