di Alessandra Pigliaru
«Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati». A distanza di circa vent’anni la voce narrante dell’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio racconta la propria speciale vicenda: quella di essere, come recita il titolo del libro, L’Arminuta (Einaudi, pp. 176, euro 17,50) ovvero, nella lingua della comunità che la battezza, la ritornata. Da dove è presto detto. Nata alla metà degli anni Sessanta nella miseria, a sei mesi viene data dalla propria madre a una cugina benestante e senza figli che ne aveva fatto esplicita richiesta per poi restituirla alla famiglia di origine.
LA RAGIONE di questa riconsegna la si svela del tutto solo alla fine del romanzo, nel frattempo si assiste al tragitto di una ragazzina di 13 anni che vive in terra d’Abruzzo, arrivata al mondo senza averlo chiesto, nella condizione di una ricomparsa scompigliante. La nidiata sembra non la stesse aspettando, né desiderando. In effetti nessuno la attende, nessuno la pensa, questo almeno nella sua rappresentazione fatta di fantasticherie infantili sulla malattia della donna che l’ha allevata e perciò si è liberata di lei, sul nodo di una madre che si moltiplica e che solo così arriva a essere sufficientemente buona.
Nel guasto di interezza si scoprono notti insonni, percorse da feroci incubi di soppressione. Se è vero che chi ama non dorme, L’Arminuta è un romanzo di passioni tempestose proprio verso il luogo più sparuto e altrettanto caro che è la propria madre. Donatella Di Pietrantonio, al suo terzo romanzo, scandaglia ancora il nodo relazionale primario che abbiamo potuto incontrare anche nei suoi lavori precedenti: l’ottimo esordio di Mia madre è un fiume e Bella mia.
NEI PARAGGI dello sconquasso definitivo, chi ci mette al mondo non necessariamente aderisce alla figura di cura, per diverse e umane ragioni che però rimangono nel piano imperscrutabile dei «grandi» che decidono, dispongono, emettono sentenze di vita e di morte, fanno progetti capricciosi e astrusi. È nella ricerca di quel particolare cortocircuito filiale che Di Pietrantonio capisce si debba stare, di cui non ci si può disfare ma che chiede di essere guarito.
E UN GIORNO, nella distrazione di un ricordo puntuto, arriva la tregua: non esiste nessuna onnipotenza, bensì ciascuna e ciascuno fa quello che può nella più autentica imperfezione di sé. E sembra abbastanza per trasformarsi. Come una infinita domanda che non smette di ottenere risposte incomplete, su un piano di realtà, e che ciò nonostante è l’unico accesso alla felicità, ci si scopre indigenti d’amore e attenzione, insieme all’Arminuta, e il varco al simbolico che pone in relazione con se stesse, le altre e infine con il mondo, si schiude misteriosamente a un improvviso baratro di perdono e gratitudine.
LEI TRASCORRERÀ un anno intero ostinata intorno all’abbandono, a studiare per nutrire la propria intelligenza adamantina, nel fuoco di una determinazione che le è propria, è sua, e di cui nessuno intende privarla. Indesiderata eppure indimenticabile, come altre figure che compongono il romanzo: Adriana – la sorella minore – con cui si può costruire l’attaccamento ripagato da una fedeltà rara; Vincenzo – il fratello maggiore – che le fa sentire per la prima volta lo sguardo maschile. Infine la professoressa Perilli, algida e luccicante di ametiste brasiliane.
NON CONOSCEREMO MAI il nome della ragazzina, insieme a lei non ce l’ha né suo padre né la donna che l’ha messa al mondo. Gli altri sono governabili, loro invece percorrono solchi già sperimentati da altre scritture precedenti che, dietro l’apparente anonimato delle mere funzioni, consentono ben più viscerali mancanze e massime evocazioni. Ce lo ho hanno insegnato, per esempio, Paola Masino con la sua straordinaria e ineguagliabile massaia bambina e poi adulta, altrettanto Alice Ceresa e Dolores Prato.
Di Pietrantonio accoglie l’immaginario popolare, e contadino, tanto famigliare quanto attento ai dettagli della grande letteratura italiana scritta da donne per segnare l’orlo ambivalente di uno sconcerto, dove il linguaggio delle madri ha la sapienza di dialogare con le creature piccole.
Che siano arrivate per la prima volta, o che siano ritornate da un rimosso lontanissimo per dire che l’unico rimedio alla propria vulnerabilità è il desiderio di riconoscere quella altrui.
DAL 22 AL 24 AL PIGNETO PER IL PRIMO FESTIVAL DEDICATO ALLE SCRITTRICI
A Roma, al Pigneto, da venerdì a domenica si svolgerà «inQuiete», primo festival delle scrittrici nato dal desiderio di Barbara Leda Kenny, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Barbara Piccolo e Maddalena Vianello intorno all’esperienza di Tuba, libreria delle donne che da 10 anni è crocevia di progetti. Realizzata grazie all’associazione Mia, il programma è dedicato alla letteratura che sa tenere in quiete, dopo la fatica. Tra le ospiti: Liliana Rampello, Milena Agus, Donatella Di Pietrantonio, Maria Rosa Cutrufelli, Helena Janeczek, Rosa Mordenti e tante altre. Reading, presentazioni e cene con le autrici, tra i focus: Virginia Woolf, Joan Didion, Elena Ferrante, Anna Banti, Mary Shelley, Jane Austen (per maggiori informazioni http://www.inquietefestival.it). «InQuiete» ha nel titolo la complessità del presente, la corposità delle parole e del lavorio incessante di chi scrive. E a firma di donne si possono leggere oggi tra le cose più significative, a livello locale e internazionale. Un senso di festa che è, e rimane, la scoperta avviata dal movimento delle donne dipanandosi in quasi altri 40 anni di critica letteraria femminista. Se le scrittrici oggi godono di ottima salute, collocate con signoria fuori da un canone a cui non chiedere il permesso di agire l’esistenza, lo si deve soprattutto alla tessitura di alcuni spazi (la Società Italiana delle Letterate, riviste come Leggendaria, online LetterateMagazine e altre realtà tra librerie, biblioteche, collettivi e archivi). Ma ciò che è più importante è il desiderio politico che sa rinnovarsi, e quale migliore occasione dunque per incontrarsi al Pigneto? Inquiete e libere.
(il manifesto, 21/09/2017)