20 Marzo 2021
la Repubblica

Laura Conti – La partigiana della natura

di Paolo Di Paolo


Confesso che è stata una scoperta. Il suo romanzo Una lepre con la faccia di bambina, appena ripubblicato da Fandango, racconta – come una distopia dal vero – il disastro di Seveso. Era il 10 luglio 1976, e la nube di diossina sprigionata dal reattore di un’industria chimica segnò la vita (la salute) di centinaia di persone. Per raccontare la vicenda, un paio di anni dopo l’evento, Laura Conti, che di lì a poco sarebbe stata fra i fondatori di Legambiente, si mette nei panni di un ragazzino brianzolo. Marco, «in cerca delle verità del mondo e in cerca delle verità del proprio corpo», prova a vedere chiaro in quella nube tossica, e a distinguere i fatti dalle bugie. In fondo, dice Conti, è la vecchia storia del giovane che si perde nel bosco e deve trovare la strada. Una fiaba più che vera, in cui i polli e i conigli muoiono, i gatti barcollano e respirano a fatica, e forse è colpa della «nuvola velenosa», ma c’è chi non ci crede.

È una assolata, interminabile estate italiana degli anni Settanta. I calzoncini corti, i fumetti, le scarpe da calcio, l’afa, le mosche. Però quelle bestie morte e i pomodori avvelenati ne infiltrano la spensieratezza, un mistero tutt’altro che buffo, ma cupo e inquietante. I genitori si sono decisi a spedire Marco a Rapallo dalla zia Irma; meglio essere prudenti. Ma zia Irma fa finta di niente: «Come se il veleno era una cosa indecente, che non si poteva parlarne davanti ai ragazzi». Ma Marco insiste, fa domande, vuole sapere, vuole capire. Tende le orecchie quando la televisione parla delle famiglie con i bambini all’ospedale, della diossina che va dappertutto, delle assistenti sanitarie con le borse piene di carte che domandano alla gente se ha prurito, macchie sulla pelle. È stufo di sentirsi trattare da bambino, sente che le verità pubbliche e le verità private non coincidono. D’altra parte, nella sua introduzione, Laura Conti insiste su come la comunità colpita abbia reagito in modo irrazionale: «Negò tutto. Negò che ci fosse diossina. Negò che la diossina fosse uscita dal reattore dell’Icmesa. Negò che la diossina fosse tossica».

Una lepre con la faccia di bambina è il romanzo – lucido e appassionato – di una grande attivista. Che conosceva il potere della narrativa: in Cecilia e le streghe, con cui debuttò nel ’63 e vinse un riconoscimento nella cui giuria c’erano Vittorini e Soldati, il Premio Pozzale, sviluppa una sorta di noir sentimentale ispirato a un episodio della sua vita di medico. Udinese di nascita – oggi avrebbe cento anni – ma milanese fin da bambina, partigiana (fu deportata nel lager di Bolzano), comunista impegnata nell’amministrazione pubblica, parlamentare attenta ai diritti e all’ambiente, Conti ha vissuto un’esistenza coraggiosa e appassionata. Ne ricostruisce, in modo eccentrico, la parabola un piccolo libro dal titolo Laura non c’è (Fandango). Le autrici, Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, proseguono il dialogo con Laura, in sua assenza. Le raccontano dell’oggi, e lei, dal suo altrove, sembra consapevole di essere «caduta nel dimenticatoio». Ma le sue parole arrivano nette e vitali, audaci anche nelle contraddizioni. E così la sua testimonianza: gli anni dei collettivi, dei dibattiti, il sodalizio intellettuale con compagne e compagni. Ma anche la solitudine quando prese posizione sulla caccia, in chiave non abolizionista; o quando insisteva sulla necessità di politiche ambientali ed ecologiste in un’Italia poco sensibile alla questione. La scelta ecologica, dice, è una scelta d’amore, amore per il sistema vivente: «Ho iniziato a studiare e trattare le scienze biologiche e l’ecologia quando le questioni ambientali non erano presenti nelle agende politiche istituzionali. Quando non si era ancora abituati a parlare di sostenibilità ambientale e sociale delle scelte economiche e industriali. Quando parlavo della relazione primaria fra politica e ricerca tecnologica e scientifica, strabuzzavano gli occhi, perché in pochi allora avevamo questo approccio. A me, che ero donna e comunista, mi trattavano come una bizzarra affabulatrice e una eccentrica visionaria».

Affabulatrice e visionaria. In fondo, un modo diverso per dire cos’è l’essere politici. Alla sua morte, il 25 maggio del 1993, su queste colonne fu messo l’accento sulla battaglia anti-nucleare. Nella dichiarazione di voto che fece alla Camera nell’agosto del 1987 a favore del referendum contro le centrali nucleari parlò a nome degli ambientalisti. Che – disse, con toni da vera narratrice – «si sono sempre sentiti dire che, se non si costruissero altre centrali nucleari, dovremmo passare le serate d’inverno nel calore animale delle stalle, a lume di candela, raccontandoci a voce le storie dei reali di Francia». La lezione di Chernobyl, il rifiuto del cinismo, la lungimiranza, la coscienza del limite. In un articolo scritto per l’Unità in quello stesso anno, dal titolo eloquente «Sempre più radioattivi», spiegava con il nitore della divulgatrice d’eccezione i rischi della contaminazione nella catena alimentare. E qualche anno dopo, allargando la prospettiva, metteva in guardia dal rischio che comporta «continuarsi a muovere nell’ideologia della crescita continua, e del continuo aumento della produttività del lavoro, ottenuta sempre a prezzo dell’accelerazione del degrado entropico, e di una crescente patologia dei rapporti interumani». Titolo? «Anche la ricchezza della natura ha un limite». Come quel ragazzino brianzolo a cui dava voce nel romanzo del ’78, Laura Conti non smetteva di farsi domande, di cercare la strada giusta nel bosco delle verità di comodo, delle verità parziali e contraddittorie. E soprattutto – come il suo personaggio – non fingeva mai di non sapere.


(Robinson – La Repubblica, 20 marzo 2021)


Nota della redazione: ricordiamo anche la recente biografia di Laura Conti scritta da Valeria Fieramonte, La via di Laura Conti. Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia, Enciclopedia delle Donne 2021, p. 336, € 19.

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