All’Auditorium il recital della performer Usa che non risparmia critiche alla guerra in Iraq e all’ipod
Mario Gamba
Come voce recitante, come lettrice poetica, pochi la battono in musicalità. Lo si nota all’inizio del suo nuovo spettacolo, Homeland, nel quasi-buio della Sala Sinopoli dell’Auditorium romano. Laurie Anderson ancora sola con la sua voce e la tastiera appena sfiorata per creare un ambiente sonoro evocativo e struggente. Conosce il segreto di far balenare quietamente appena una nota nella parte vocale del “recitato con musica”: una nota che sembra prolungarsi, lasciare un ricordo, dare un carattere. Oggi in questa particolare arte è più matura, meno manierata (se mai lo è stata), meno conciliante. Pur sempre lirica.
Quando questa lettura diventa recitativo vero e proprio e immediatamente canto, il passaggio è lieve e fascinoso. E intanto l’hanno raggiunta sul palco i tre musicisti che collaborano con lei alla realizzazione di questo poema-concerto per una volta senza video, tutto giocato sul testo e sulla musica. Sono Okkyung Lee, grandiosa violoncellista al centro delle più importanti avventure di musica “sperimentale”, con Butch Morris, con Assif Tsahar, qui, diciamolo, abbastanza sprecata. Poi, Skuli Sverrisson al basso elettrico e Peter Scherer alle tastiere.
Deliziosa “antiamericana” questa Laurie Anderson. Subito dopo un “preludio” che accenna agli Uccelli di Aristofane per raccontare l’inizio della memoria nella storia dell’umanità – e c’è già tutto il suo pensiero austero: viviamo in tempi bui perché non ricordiamo le cose importanti, fondative, la Costituzione per esempio, che forse qualcuno “ha scritto con inchiostro invisibile” -, il suo testo raffinato parla di uomini “vestiti per uccidere” che dicono di sé “di sicuro abbiamo ragione” e c’è chi grida “benvenuti benvenuti” e c’è la voce di qualche coscienza critica che aggiunge “benvenuti nella notte americana”. Sono senza dubbio i soldati Usa mandati in Iraq che viaggiano in lungo e in largo al suono di un inno che fa più o meno così: “Dammi un ipod/voglio ascoltare un rap… perché sono un tipo cattivo/lascia che ti spedisca dritto all’inferno”.
Dalla critica dell’ipod alla critica della civiltà dell’immagine, per cui “le cose non sono più le cose”, il passo è breve. Non si poteva sperare che Anderson si fermasse per una volta a osservare la tragedia di un presente assai vicino: lei ha come sempre nella testa che tutto il male venga da un mondo di consumi e di agi e che ci dev’essere stato un tempo, da rimpiangere, in cui la naturalezza del vivere non generasse mostri. Una vera apocalittica adorniana, rimpianti a parte (il maestro francofortese non si dilettava in ciò). Lo spettacolo si snoda attraverso le “stazioni” dell’orrore della vita americana non solo di oggi, non solo per le guerre e il folle progetto di dominio mondiale. L’Anderson di sempre, insomma.
Ma il testo, che ha una continuità anche se lascia campo alle canzoni (con relative parole) a loro modo “chiuse”, è davvero garbato e inventivo. Polemico e persino predicatorio: “Non c’è posto per la libertà quando la guerra non accenna a finire”. Dal punto di vista musicale c’è un’altra bellissima prerogativa di Laurie Anderson vocalista da mettere in rilievo. È quando prende l’avvio di un’aria partendo da un suono basso, ma sembra un suono naturale corporeo non una nota, non dura nemmeno un secondo, e poi l’aria è tutta cantata nel registro acuto. Sensuale. L’orchestrazione stavolta è più ambiziosa ma anche più pesante: quando gli “ostinati” gentili di tutti quanti lasciano il posto a certi unisoni enfatici violino-violoncello-tastiera. E invece le nenie intellettuali e politiche di Laurie non andrebbero disturbate.