«Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura» di Liliana Rampello per Il Saggiatore. Un saggio che ne rilegge l’intera opera, dai romanzi alle opere politiche ai testi autobiografici, nella chiave dell’amore per la vita che la grande autrice scopre con la scrittura
Luisa Muraro
Farò le lodi di un libro appena uscito, le lodi e qualche critica, per fare l’elogio di Virginia Woolf e dell’Italia: con Italia intendo, metonimicamente, il femminismo italiano che non ha smesso di leggere, amare e commentare colei che, in Inghilterra, chiamavano la darling, dangerous woman, la bella, cara e pericolosa Virginia. Il canto del mondo reale s’intitola l’ultimo libro a lei dedicato, autrice Liliana Rampello, sottotitolo: Virginia Woolf. La vita nella scrittura (Il Saggiatore, pp. 221, € 16,50). È il libro di una lettrice di Virginia Woolf, ben più che quello di una letterata (ed è la mia prima lode), pur essendo questa la formazione professionale di Rampello e pur essendo il suo un libro informato del molto che è stato scritto sulla Woolf. Non ho niente contro i letterati, intendiamoci, voglio solo dire che c’è una differenza. Qual è? Che lei, la lettrice Liliana, conosce la sua autrice dall’interno, e l’interno è l’esperienza di lettura, un’esperienza tutta speciale dove realmente chi legge s’incontra con chi scrive. E da lì ritorna a noi con la voglia di raccontare quello che le è capitato. Nasce da in simile incontro l’idea che dà incremento all’intero libro della Rampello, quella di un amore della vita che diventa scrittura vera e «canto del mondo reale», idea che l’autrice comincia ad esporre come chi racconta un’avventura: «Nell’immagine di lei che mi è venuta incontro, il nucleo inaggirabile è il suo amore per la vita ed è questo il filo che ho scelto di seguire e srotolare…».
In contrasto con questa visione, il pensiero corre ovviamente alla morte di Virginia, morta suicida nel 1941, all’età di cinquantanove anni, ma l’autrice scarta la troppo facile obiezione con gesto lieve che convince. Sempre per fedeltà all’immagine di una Virginia amante della vita, non esita a scostarsi dalla pur ammirata Nadia Fusini, grande traduttrice di romanzi woolfiani, quando questa rintraccia nella Woolf una moderna «scienza del lutto». Questo secondo contrasto mi sembra più problematico. Si tratta di due esperienze di lettura tra loro differenti e incomparabili, certo. Ma potevano essere meno distanti, io penso, movendo a Liliana la mia critica principale o unica. Penso, precisamente, al suo giustamente lungo commento di una magnifica pagina della Signora Dalloway, quando, nel bel mezzo di una festa s’insinua la notizia del suicidio di Septimus. Non è un personaggio qualsiasi, Septimus, ma il protagonista del controcanto che accompagna la giornata della protagonista, tutta dedita, quest’ultima, alla preparazione della festa che avrà luogo la sera. L’uomo, reduce della prima guerra mondiale e malato di mente, si è buttato dalla finestra del suo appartamento per sfuggire al manicomio cui lo destinavano la sua povertà e il verdetto di un illustre clinico, amico della famiglia Dalloway. La morte che viene per rovinare la festa ma non ci riesce, nella lettura di Liliana sarebbe la morte «accolta come una diversa forma che la vita prende nella nostra mente e che si tinge ancora dell’amore stesso che abbiamo per la vita». Lei dà questo credito al personaggio della signora Dalloway, io no, a me pare cioè che la Woolf, in quel punto del romanzo, si distacchi dalla sua eroina e la guardi in silenzio, sguardo silenzioso che ce la rende meno esemplare e più vera. E che arriva fino a noi. C’è anche quest’aspetto nella attualità di Virginia Woolf, io ritengo simpatizzando qui con la posizione di Nadia Fusini, consapevole tuttavia che la discussione dovrebbe approfondirsi e non so con quale esito.
Dobbiamo riconoscere, comunque, il coraggio di Liliana Rampello che, per restituirci Virginia Woolf, intona – oggi – il canto dell’amore della vita, riconoscerlo insieme all’intento che la anima. Quello che lei vuole, esattamente come tutte e tutti quelli che escono da una grande esperienza di lettura, è restituirci l’interezza dell’opera di Virginia Woolf, i romanzi insieme ai saggi politici e alla vasta scrittura autobiografica, restituircela non attraverso una esposizione più o meno dettagliata ma facendo rivivere l’ispirazione profonda di tanta opera. Sappiamo quanto i «letterati» di ogni tempo abbiano in sospetto una simile pretesa e come si diano da fare per farla sembrare mera presunzione, ma sappiamo anche (io lo so grazie al lavoro erudito dei «letterati»… paradosso istruttivo) che senza questa presunzione, chiamiamola pure così, non c’è cultura che possa vivere e rinnovarsi. E viceversa, nel senso che c’è una cultura, quella del movimento politico delle donne, che autorizza libri come questo, l’autrice non ne fa mistero, libri affettuosi e amorosi messi al mondo direttamente in un campo di battaglia.
L’ispirazione profonda della scrittura woolfiana, come viene fuori dalle pagine di questo libro, è nel circolo virtuoso fra amare la vita e dire «le cose come sono», che lei, Virginia, crea o scopre con la scrittura. Lo conferma lei stessa, del resto, commentando quelli che chiama i suoi «momenti di essere», e parla di una sua filosofia o idea (idea di un ordine simbolico?) che ha sempre avuto, ossia che dietro l’opacità della vita quotidiana ci sia un disegno affiorante a sprazzi con il lavoro della scrittura, e che il mondo intero sia un’opera d’arte di cui noi siamo parte, alla stregua di segni viventi.
Il passaggio cruciale è costituito dai due saggi politici della Woolf, Un stanza tutta per sé e Tre ghinee, riuniti in questo libro sotto un unico, significativo titolo, «Dire la verità». In che cosa consiste la capacità che hanno questi due testi, a suo tempo accolti con imbarazzo dagli ammiratori della Woolf romanziera, specialmente il secondo, oggi stampati e ristampati per un pubblico fedelissimo e quasi esclusivamente femminile, di inanellare fra loro vita e scrittura? Per rispondere con una parola piuttosto rustica, diciamo che la loro capacità è nella loro esplicitezza. Esplicitare è una mossa sempre variamente rischiosa, rischiosissima nel caso della Woolf, il quid da esplicitare essendo le emozioni «abbiette» (per citare Judith Butler) di una esperienza femminile tacitata non da qualche autorità poliziesca ma dall’implacabile legge del ridicolo. Virginia Woolf ha saputo sfidarla con arte magistrale, non inferiore a quella dei suoi migliori romanzi, e con risultati geniali per la politica e per la filosofia. Questo è il mio elogio, annunciato all’inizio, ed è anche la ragione della riconoscenza senza fine («la ringrazierò per sempre») con cui Liliana Rampello conclude il suo libro.