24 Agosto 2008
l'Unità

Le donne che danno voce agli uomini

Giulio Ferroni

Il personaggio, dal nome esemplare di Vincenzo Malinconico, tiene banco tra fatti, misfatti, malintesi, deviazioni, sorprese: gestisce il racconto in prima persona, ma come “un narratore incoerente”, che, più che seguire uno sviluppo di eventi, giostra tra diverse situazioni, che suscitano il suo estro di filosofo “minimo”, dispensatore di riflessioni paradossali sulle contraddizioni infinite dell’esistenza, sull’assurdità di gesti e comportamenti propri ed altrui. È come uno Zeno Cosini in sedicesimo, che in fondo, a forza di non sapere, di equivocare sul proprio rapporto con gli altri, di prendere lucciole per lanterne, arriva ad una sua inaspettata felicità: e l’autore sa far valere questo collaudatissimo schema navigando tra oggetti, luoghi comuni, consuetudini ben note ai lettori, che fanno da spunto per battute “simpatiche” e talvolta prevedibili (e questo può offrire certo occasioni di piacevole lettura). Ammiro la bravura di De Silva, la sua versatilità (anche pensando ai caratteri molto diversi di sue prove precedenti): ma non riesco a ridere per le evoluzioni di questo ennesimo giocoliere, che a tratti arriva anche ad annoiarmi. Leggo invece “tutto d’un fiato” (come si dice) il libro di Lidia Ravera, Le seduzioni dell’inverno (Nottetempo), che ha anch’esso al centro (ma con narrazione in terza persona) un personaggio maschile che vive solo, da tempo separato dalla moglie: si tratta di un funzionario editoriale sulla cinquantina, conosciuto per il suo carattere freddo, “cuore invernale”, che, pur avendo avuto varie donne, non ha mai provato un vero amore per nessuna, e tanto meno per la moglie da tempo lasciata. Nella calda estate romana, per uno strano intreccio che si svelerà solo verso la fine, la sua casa viene “visitata” da una strana domestica, di cui finisce per innamorarsi, ma che poi improvvisamente sparisce. La scrittrice gioca con grande sottigliezza sul mistero rappresentato da questa domestica che mette in subbuglio la vita del protagonista, con una crescita progressiva, e non senza momenti di deformazione ironica, di sorpresa, esitazione, desiderio, passione. Il ritmo rapido e leggero, quasi svolazzante, della vicenda fa pensare ad intrecci sentimentali ed erotici settecenteschi, aerei, inafferrabili, giocati in superficie, eppure “pericolosi”: gioco dell’amore e del caso, della sorpresa, della finzione e della maschera,dello svelarsi e del ritrarsi; costruzione “teatrale” di una vendetta femminile nei confronti di quella “invernale” aridità maschile (in cui si affaccia anche la situazione del gioco d’azzardo). Insomma un piccolo gioiello, così essenziale e a suo modo perfetto: nell’ eccitazione che lo percorre si affaccia peraltro qualche tratto di perplessa malinconia, come nella presa d’atto del carattere illusorio dell’amore, dell’obliquità dei rapporti, dell’indeterminatezza della comunicazione.
Mi colpisce d’altra parte il fatto, sempre più frequente del resto, che una scrittrice abbia qui scelto di mettere al centro, come protagonista, un personaggio maschile (anche se, come ho detto, e come risulta chiaro dall’esito della vicenda che evito di rivelare, vi si può scorgere anche una sorta di femminile “vendetta”). A un personaggio maschile è affidata la narrazione in prima persona dell’altro romanzo della cinquina, L’illusione del bene (Feltrinelli) di Cristina Comencini: qui la voce narrante è quella di un cinquantottenne, anche lui marito separato, giornalista della Rai, con un passato di comunista, come quello di tanti intellettuali della sua generazione, che incontra Sonja, una bella immigrata russa e, turbato dalle sparse notizie che ella dà della sua famiglia e della persecuzione della madre dissidente negli ultimi anni del comunismo, va alla ricerca di testimonianze agli Open Society Archives di Budapest, e poi in Russia. Al di là dell’ esito di questa ricerca, lo sviluppo del libro, che si appoggia su una coscienziosa documentazione, vuol offrire un’assorta meditazione sulle contraddizioni del comunismo, sull’equivoco con cui tanti intellettuali vi si sono accostati ignorandone i misfatti, sul male prodotto da quel “sogno di una cosa”, sugli orrori usciti da quella “illusione del bene”. A parte il linguaggio un po’ neutro ed inerte, nel romanzo si può certamente riconoscere un possibile soggetto cinematografico, forse insidiato da un certo “buonismo” sentimentale (sempre troppo “cuore” nella Comencini), da certa troppo stretta chiusura nel punto di vista di quella borghesia intellettuale che non riesce a guardare fino in fondo agli errori e agli equivoci del passato e alla loro continuità con i disastri del presente, finendo per affidarsi ancora a qualche sua privata illusione.
Lasciato finalmente lo Strega, il recente ricordo mi conduce ad un altro libro già letto, scritto anch’esso da una donna con voce narrante : un libro che un terribile caso ha portato in libreria in due giorni dopo la morte dell’ autrice, La via di Fabrizia Ramondino (Einaudi), facendone così un amaro suggello, punto d’arrivo di una esperienza tra le più appartate e singolari della letteratura degli ultimi anni: proprio sollecitato da quella tragica combinazione del destino e parola finale, lo avevo proprio in quella stessa settimana, all’inizio dell’estate, e ora lo riprendo in mano, pensando allo sguardo lontano e doloroso della scrittrice, l’effetto di altrove e di silenzio che dava la sua presenza, la tensione che animava la fragile figura. Proprio in quella condizione conclusiva assegnata dalla crudeltà del caso, La via erompe con uno scatto essenziale e perentorio che poi si svolge e si frantuma in mille rivoli, quasi ad indicare, nonostante tutto, l’incompiutezza dell’esperienza della scrittrice, una sua resistente e insoddisfatta volontà di apertura, di affidamento al mondo. A parlare è qui un uomo di mare che si è trovato a soggiornare per un periodo piuttosto ampio in un immaginario paese del Sud, Acraia, che in realtà fa pensare a qualche cittadina tra il Sud del Lazio e il Nord della Campania, tra Terracina, Cassino, Sessa Aurunca, nella zona in cui la scrittrice era approdata negli ultimi anni. La vecchia Via consolare che percorre il Borgo del paese reca in sé il segno delle trasformazioni che si sono succedute dal tempo della guerra allo sviluppo caotico degli ultimi decenni; nella frenetica vita che la anima, tra il sorgere di nuove attività commerciali e il traffico dei camion che continuamente l’attraversano, si dà come una metafora reale dello sfaldarsi dello spazio e del tempo, dell’impossibilità di mantenere un equilibrio umano, di qualcosa che si oppone alla felicità delle vite che pure lì si affacciano e si cercano. Ancora una volta la Ramondino mostra qui la sua eccezionale capacità di ascoltare la vita dei luoghi, di sentire il loro respiro interno, la loro animazione pulsante, i loro tendere verso un possibile bene e il loro sfaldarsi e corrompersi, le minacce interne ed esterne che li corrodono. La via è aperta come un mare in cui arrivano i detriti del mondo, gli echi attutiti e persistenti degli orrori e delle guerre che agitano il pianeta, gli scampoli e gli scarti di ciò che ne mette sempre più in pericolo l’equilibrio vitale, che allontanano per sempre quelle ipotesi di luce, di pace e conciliazione che si sono affacciate nelle utopie e nelle speranze di una storia lontana e vicina. L’ospite di Acraia segue le molteplici vite che si affollano in quel periferico crocevia del mondo, ascolta i racconti slegati e frammentari dei vari personaggi che frequenta o che casualmente incontra: lacerti di vita autentica, “frammenti sparsi di un mosaico” che tarda a ricomporsi, un susseguirsi di divagazioni, di contatti imprevisti, uno sminuzzarsi di fatti e di fatterelli, un costituirsi di rapporti che lasciano margini di non comunicazione; e tante curiosità che non vengono completamente
soddisfatte, come se l’essere delle persone, anche di quelle più semplici e disponibili, covasse sempre dentro di sé qualche segreto, nascosto e insondabile anche quando forse non ha nulla di traumatico o sconvolgente. Resta qualche sconcerto per il fatto che, nel susseguirsi di voci diverse, nel vario incalzare di divagazioni (fino a nuovi dati che si aggiungono quando il narratore ha lasciato per sempre Acraia), viene come a slabbrarsi e a perdersi l’intensità di quello ascolto del pulsare della via, che in tutta la parte iniziale nel libro offre uno scordo davvero essenziale della lacerata Italia di oggi.
Ancora un protagonista maschile è al centro del libro di Francesca Sanvitale, L’inizio è in autunno (Einaudi): allo psichiatra Michele viene qui affidato il punto di vista di una narrazione che comunque è in terza persona e che è concentrata in gran parte su vicende dell’autunno in cui Michele sospende l’attività terapeutica per portare a termine un lavoro destinato ad un concorso universitario. Una scrittura che sa pazientemente e delicatamente avvolgersi intorno allo scorrere della vita, alle luci, ai colori, alle ombre che la abitano, ai turbamenti psichici e alle contraddizioni del sentimento, ai vuoti e alle incertezze della riflessione su di sé e
sul mondo, segue i pochi ma essenziali incontri che vengono a turbare e ad arricchire l’esperienza del quasi solitario psichiatra che, prossimo alla quarantina, credeva ormai che la sua vita fosse per sempre limitata agli incontri e agli scambi problematici con i pazienti, seguiti con vigile attenzione. Nel breve spazio delle strade dei quartieri intorno a San Pietro, tra il lento variare atmosferico della Roma autunnale, Michele si lascia catturare entro una vicenda legata al restauro ormai concluso del grande affresco del Giudizio universale nella Cappella Sistina, in un nesso di ossessioni che coinvolgono anche una donna condannata da un cancro alla testa e che in particolare chiamano in causa il restauro della testa del Cristo michelangiolesco. il romanzo viene così a sovrapporre le esistenze di fragili esseri umani, il loro ridotto mondo privato, alla formidabile suggestione tragica, alla potenza smisurata di quel capolavoro assoluto; e se le vicende private possono apparire a tratti troppo dimesse, se desideri e sentimenti dei personaggi si dispongono in misure troppo ridotte (non senza qualche leggera incongruenza), il continuo disegnarsi delle immagini del Giudizio, con gli sguardi di Michele alle illustrazioni di libri dedicati al restauro e le sue visite alla cappella Sistina, fa aleggiare su quella esistenza, su questo mondo di “dopo”, sulla così marginale realtà contemporanea, il “vento della fine”, l’assoluta negatività e distruttività di quel capolavoro che sembra condurre tutta la storia dell’umanità non certo verso una quiete finale, verso il rasserenante trionfo del piano religioso del cosmo, ma verso il nulla più radicale ed implacabile. Bellissime sono le pagine dedicate all’osservazione delle figure del Giudizio; e davvero suggestivo e carico di significati è il corto circuito costruito tra quella arte inarrivabile e l’eco che ella lascia sul presente da lei così lontano. Nella vicenda di ossessione che si costruisce intorno al Cristo del Giudizio si rivela del resto immediatamente un legame simbolico tra restauro artistico e psichiatria: le incertezze e i dubbi relativi al restauro (il restauratore Hiroshi è dominato dalla convinzione paranoica che l’originale della testa del Cristo sia andato misteriosamente distrutto nel corso del lavoro e che a lui ne sia stata affidata la ricostruzione, fatta passare per l’originale) rivelano uno stretto rapporto con quelli della terapia, con i processi che in essa , hanno luogo, con la necessità e il rischio di trarre alla luce traumi nascosti, con l’incertezza e l’imprevedibilità della guarigione. Libro serio e severo, a tratti anche dolce, in cui l’effetto di inizio affidato allo stesso titolo si specchia ansiosamente con quello di fine che sprigiona sulla rovinosa potenza delle immagini di Michelangelo.

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