Giovanni Tesio
“Con Antonia Pozzi abbiamo ormai scavalcato un anniversario (i settant’anni dal suicidio avvenuto a soli 26 nel 1938), ma giunge in ogni caso utile la riproposta di Tutte le opere (non proprio tutte, in verità) per ribadire l’altezza poetica a cui è pervenuto un itinerario fatto di «fragilezza ardente», di vita aggrappata a spazi esili, di solitudini interiori, di rigore intellettuale e morale, di terre promesse, di soglie smarginate, di gioie tempestose, di anafore sentimentali, di tragico destino (una testimonianza «a latere» si segnala nel volume di Marco Dalla Torre, Antonia Pozzi e la montagna, Àncora Editrice).
Proprio a cominciare dalla Pozzi, ciò che imprime un fascino speciale alla poesia femminile è la testimonianza di un verso radicato nel reale, la continua ricerca di un senso che si incardina anche nel significato, nella sua leggibilità, nella sua comunicabilità, nella corrispondenza e utopistica coincidenza della necessità di dire e della parola capace di articolarne la voce. Come testimoniano alcuni altri libri appena pubblicati, che appartengono a poetesse diverse, ma tutte avvinte alla morsa delle cose, al dominio di una scrittura limpida e concreta. Ciò che accade puntualmente con i versi di Maria Luisa Spaziani «Vorrei mordere il tempo come il pane, / lasciarci il segno dei miei denti»), tratti dal libro appena uscito, L’incrocio delle mediane. Poesia di voce netta, di taglio classico, di misura bilanciata, di equilibrio ironicamente regolatore, fino alla metastasiana (e pascoliana o caproniana) leggerezza di questa icastica quartina siderale: «San Lorenzo piangente / su pianure infinite. / Tutta la notte il cielo/ sfoglia le margherite». Pur lavorando di schiettezza e trasparenza («Se la forza della semplicità va diritta al cuore», come dice un primo verso) alle virgiliane «lacrimae rerum» (ricordo anche un racconto di Verga) allude il titolo del libro di Gabriella Sica, Le lacrime delle cose, costruito con parole libere, come scrive Paolo Lagazzi, «dalle oscurità e dalle costrizioni mentali del modernismo simbolista». E del resto, è la stessa Sica della Poesia per Cecilia a innescare domande affannose e cruciali, sicuramente retoriche: «Amare tanto amare troppo amare il reale./ Questo l’odioso torto? Questi gli imperdonabili errori?». Incontri, abbandoni, strazi, tempi, spazi, viaggi, occasioni in un libro unitario, che dalle deliziose «Poesie piccolette» fino alle più elaborate costruzioni (in versi anche lunghi) dei componimenti di dimensione maggiore si tiene alla saldezza degli incontri: tanto con i vivi quanto con i morti, a cui sono dedicate le terzine di un canto fermo e commovente. «Poesie piccolette» (di casta e smaliziata innocenza) sono da sempre quelle di Vivian Lamarque, che ci fa ora la sorpresa di un recupero curioso, collocabile come scheggia (minore, ma non impazzita) nella tradizione dei Tessa e dei Loi: la raccoltina La gentilèssa, scritta per altro – la stessa Lamarque ammette – in un milanese «alquanto improbabile» (come registra l’intervista rilasciata a Barbara Tolusso pubblicata in coda al libro, l’autrice è nata in Trentino ma milanesi erano i genitori adottivi). Adesione a una lingua di cose, a un mondo d’infanzia e di casa, che parla di fatti piccoli e grandi, di luminii e sconforti, di luoghi della Milano «brütta bèlla» perché legata all’amore e al disamore, ai sogni di sempre, ai desideri fatti di tutto e di niente. Da Novella Cantarutti a Nelvia Del Monte, da Assunta Finiguerra a Bianca Dorato, da Franca Grisoni a Ida Vallerugo, ancora voci «dialettali», infine, nell’antologia Cinquanta poesie per Biagio Marin, a cura di Anna De Simone. Al di là della resistenza del mezzo, un florilegio che conferma sia la qualità di tanta poesia «al femminile» sia la sua propensione realistica, che è poi – prima di tutto – energia di radicamento nella parola e nel cuore.”