20 Maggio 2023
Il Quotidiano del Sud

Le “Tre ciotole” di Michela Murgia

di Franca Fortunato


«Ho un carcinoma renale al quarto stadio, da cui non si torna indietro, mi restano mesi da vivere, ma la morte non mi fa paura» è la confessione choc che Michela Murgia ha fatto al Corriere della Sera in un’intervista ad Aldo Cazzullo, parlando del suo ultimo libro Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi edito da Mondadori, da pochi giorni in libreria. Il libro con le sue dodici storie, l’una diversa dall’altra, si apre con il dialogo in terza persona tra lei e l’oncologo che le comunica la diagnosi e le spiega che quel carcinoma non è un nemico da combattere, da distruggere, ma «un complice della sua complessità, una parte disorientante del suo corpo sofisticato […], niente di più di un compagno» che sbaglia. «Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono» e lei non ha «voglia né forze di fare la guerra a sé stessa». A quel tumore (lei) la protagonista dà un nome coreano “I am”, perché «usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le pareva l’unica sostenibile in quel momento». In tutti i racconti le/i protagoniste/i, all’interno dell’anno di pandemia, vivono una crisi soggettiva e per sopravvivere emotivamente trovano soluzioni inedite e impreviste. Tutte/i non hanno un nome ma solo la voce con cui si raccontano. In ogni storia autobiografia e non autobiografia si mescolano e tutte insieme come in un mosaico ci restituiscono l’autrice con le sue idee politiche, le sue lotte, le sue convinzioni, la sua vita dopo la diagnosi, vissuta con la consapevolezza di non avere molto tempo da vivere ma abbastanza per prepararsi e preparare alla sua morte chi le vuole bene. Le tre ciotole da cui prende il titolo il libro, comprate dalla protagonista di una delle storie, sono quelle in cui l’autrice mangia un pungo di riso, qualche pezzo di pesce o di pollo e qualche verdura per tenere a bada gli improvvisi conati di vomito. Nel racconto della moglie che non vuole che il marito venga tenuto in vita dalle macchine c’è lei che dice «posso sopportare molto il dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare». Lei credente in un Dio relazionale a quella donna fa dire «ho passato la vita a fare scelte per il bene di mio marito e alla fine non è stato diverso. Su quel letto in terapia intensiva […], non vedevo più l’uomo che avevo sposato. Non avevo scelta. Non so se Dio mi chiederà conto di aver creduto più alla sua misericordia che alla scienza». La malattia rievoca antiche insofferenze come quella per i piatti, legata ai suoi genitori che «si erano distrutti addosso interi servizi di piatti con una frequenza tale che quando raccoglievamo i cocci dell’ultima lite trovavamo ancora sotto al divano le schegge di quelle precedenti». Nel racconto della donna che odia i bambini ma acconsente a metterne al mondo uno per dare un figlio al suo amico d’infanzia e alla moglie e in quella del professore che dice di essere con sua moglie “in attesa” dopo «una gravidanza prima difficile, poi impossibile e infine surrogata», c’è il pensiero dell’autrice su quella pratica. Lei che conosce la fine della sua storia chiude il libro con il racconto di un rito, che ha inaugurato al suo cinquantesimo compleanno. La protagonista organizza «un pranzo di addio per la sorella morta con i suoi vestiti appesi agli alberi» perché le amiche e gli amici invitati potessero scegliere «il ricordo da portare via» e portarsi, così, «a casa un pezzetto di lei». Alla fine delle storie il libro si rivela il romanzo di una vita vissuta e l’accettazione della morte con serenità, coraggio e dignità.


(Il Quotidiano del Sud, 20 maggio 2023)

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