21 Gennaio 2004

“Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi

Elisabetta Cicchi

Il libro di Azar Nafisi è uno di quei testi che ti incoraggiano a credere che nonostante le aberrazioni della nostra epoca esista in fondo ad ogni essere umano un nocciolo intatto di pura bellezza, una sorgente di energia libera e limpida. L’autrice scrive il racconto delle proprie esperienze di docente di letteratura inglese all’Università di Teheran alla vigilia, e durante i primi mesi, della rivoluzione Khomeinista. Il libro si intitola Leggere Lolita a Teheran perciò, già prima di leggerlo, soffermandomi sul titolo, mi sono interrogata sulle vicende di censura che il testo di Nabokov ha dovuto affrontare prima di venire alla luce, e su come dovesse essere difficile, se non addirittura pericoloso, tenerlo tra le mani nella terra della Repubblica dell’Islam.
Leggere Lolita Teheran è stato, per me, una finestra aperta su una realtà quasi sconosciuta, ed è stato motivo di gioia. L’Iran di cui ci parla questa donna è una terra lontana, complessa, strangolata dall’odio e dall’ottundimento della ragione, eppure lì, come in tanti altri paesi più o meno scopertamente soffocati, resta vivo il bisogno di vedere, di sentire, di comprendere. Non è un caso che la Adelphi, che lo pubblica in Italia, abbia scelto una foto di copertina come questa: una donna seduta che sta leggendo un grosso libro tenuto con una mano, l’unica parte visibile del suo corpo, altrimenti completamente coperto da un velo nero.
E’ un libro in cui si parla fondamentalmente di letteratura, ma in cui si parla anche fondamentalmente di libertà e di prigionia. Che non è per forza la prigione dei dissidenti, delle ragazze che vengono sorprese con una ciocca di capelli che scivola fuori dal velo o con le unghie laccate di rosso. Queste, se vogliamo, sono le metafore visive delle prigioni vere, sono i muri e le sbarre costruite con le prigioni che noi abbiamo nella testa quando siamo arrabbiati, quando siamo spaventati, quando abbiamo voglia di vendetta e la ragione e il cuore vengono azzittiti, dimenticati. Ed è solo l’arte che può arrivare dietro quelle sbarre che si serrano sempre di più, prima di tutto nel nostro cervello, dentro di noi, nel profondo di noi.
La Nafisi si rende conto che giorno dopo giorno si allungano le liste dei libri proibiti, che i suoi concittadini devono sottostare sempre più ad inaccettabili regole restrittive di ordine sociale e culturale, che i suoi studenti non possono più agire da liberi pensatori, che il pensiero e la creatività sono i primi ribelli del regime e per questo vanno annientati. Nel tentativo di combattere tutto ciò, durante le sue lezioni, cerca di stimolare i suoi studenti e chiede loro: Tu cosa pensi di James? Tu cosa pensi di Humbert? E l’assale la disperazione quando alcuni tra loro, anche i più brillanti, rispondono condannando l’uno o l’altro, o tutti e due, perché quello che hanno scritto, o le azioni che compiono sono “immorali”. I giovani studenti non ragionano più, hanno assunto come loro pensiero i dettami del partito. Non c’è più il bello ma solo il giusto, ed è giusto solo quello che lo è per il partito, secondo la morale del partito.
Eppure, per uno studente che si perde ce n’è un altro, o un’altra, che si sveglia. E questo succede proprio grazie agli immorali protagonisti occidentali di quei romanzi in lingua inglese, la lingua del nemico americano; però, non è per via dell’immoralità dei protagonisti, o della novità di una cultura più liberale che si aprono gli occhi, ma grazie all’arte. Prendiamo Jane Austen, a cui viene dedicato un capitolo intero, chi la condannerebbe per immoralità?
C’è di più, perché proprio il soffocamento intellettuale che sconvolge il suo amato paese spinge lei e un gruppo di studentesse a un genere di intimità altrimenti impensabile; in casa Nafisi si svolgono delle riunioni segrete in cui liberamente si leggono e si commentano i testi proibiti per amore dell’arte rivelatrice che giace nelle pagine dei libri.
All’inizio del primo capitolo del racconto Azar Nafisi scrive: “[…] ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania della verità.” Questo racchiude già il valore del libro stesso; passando per i romanzi, passando per le poetiche degli scrittori non si raggiunge una legge, non si coglie un comandamento, ma una scintilla, un momento di significato che noi soli, in prima persona dobbiamo e possiamo cogliere per poter vedere quello che non è scritto chiaro e tondo, ma si rivela pian piano e ci rende liberi di pensare, di gioire, liberi di volare via da qualsiasi territorio soffocato, strozzato, dentro e fuori di noi.

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