5 Ottobre 2020
il manifesto

Leïla Slimani, conflitti irrimediabili all’appuntamento con la grande Storia

di Francesca Maffioli


La guerra la guerra la guerra è il titolo del primo tomo de Il paese degli altri, trilogia ad opera dell’autrice franco-marocchina Leïla Slimani pubblicata da La nave di Teseo nella traduzione di Anna d’Elia. Nel romanzo il titolo del volume fa capolino nelle parole di Selma, bellissima sorella minore del protagonista, la quale fa il verso a Rossella-Scarlett O’Hara di Via col vento. Entrambe, con strafottenza schernita, si lamentano del bellicismo esasperato che caratterizzerebbe il genere maschile. Come nel romanzo di Margaret Mitchell la guerra di secessione americana troneggiava indiscussa nella storia, così gli scontri in seno al Protettorato francese in Marocco scandiscono la dimensione del tempo emotivo della vicenda raccontata da Slimani.

La saga familiare della famiglia Belhaj andrà ben oltre gli anni Sessanta, dichiara la scrittrice e questa prima parte rappresenta l’esordio di un trittico in cui il risveglio nazionalista marocchino e le lotte contro il potere coloniale francese si accompagnano al lento ma decisivo cambiamento del ruolo delle donne nella società. Le tensioni tra modernità e tradizione si altalenano nel testo in un andirivieni di spinte apparentemente irreversibili al cambiamento e rigurgiti reazionari, che si stringono come lacci alle caviglie di chi corre appresso al progresso dei modi all’europea. Le ingiunzioni della dominazione coloniale sono affrontate attraverso la dimensione sessuata dei rapporti di genere, che sono descritti apertamente come rapporti di potere che vanno anche oltre il giogo coloniale. In linea al pensiero della storica e antropologa femminista Ann Laura Stoler si direbbe che la difficoltà consista proprio nel determinare cosa sia specificamente coloniale nella dominazione coloniale.

L’europea della storia è una francese, Mathilde, un’alsaziana che si innamora di Amin, volontario marocchino nell’esercito coloniale di passaggio in Europa al seguito delle truppe alleate. I due si incontrano nel 1944 vicino a Mulhouse e alla Liberazione, gonfi d’amore e d’entusiasmo, si sposano e decidono di trasferirsi in Marocco nella tenuta che Amin aveva ereditato dal padre, a 25 chilometri da Meknes. «Aveva letto che il Marocco sarebbe diventato una specie di California, quello Stato americano pieno di sole e di alberi di arancio dove gli agricoltori erano tutti milionari».

I sogni milionari di Amin sono il corrispettivo di quelli di Mathilde, cullata nelle sue scelte da scenari africani alla Karen Blixen. I sogni esotisti della donna si sciolgono presto nella pozza di disillusione in cui il sentimento di straniamento, di lei straniera, sembra essere l’unica realtà galleggiante.

La rudezza della terra con cui la famiglia si scontra è dello stesso tenore ruvido della biancheria di lana grezza che indossa la piccola Aisha. La solitudine subita e cercata di questa famiglia mista si installa definitiva, mettendo in luce sia la portata escludente degli atteggiamenti sprezzanti da parte dei coloni sia quella degli sguardi interrogativi e impietosi degli autoctoni.

Il suo libro, per come tesse la trama della storia coloniale e il disincanto dei suoi personaggi, ricorda «Una diga sul Pacifico» (1950) di Marguerite Duras. La disillusione indocinese, che è anche quella della madre protagonista del romanzo di Duras, ricorda i momenti di sconforto esistenziale di Mathilde, la sua protagonista. Cosa accomuna queste due personagge?

Ha ragione a tracciare un parallelo tra questi due romanzi perché il lavoro di Duras è stato davvero una grande fonte di ispirazione per me. Come la madre di Duras, Mathilde affronta delle delusioni; come lei, non è completamente integrata in questo mondo coloniale che disprezza. Sono entrambe donne che si confrontano con la terra, gli elementi naturali e le frustrazioni che ciò può generare. Ma Mathilde, a differenza della madre, non è sola. Vive una relazione d’amore appassionata con il marito, è una madre amorevole, si integra gradualmente nel nuovo paese di cui parla la lingua. Credo insomma che si radichi.

I suoi personaggi, prime fra tutti Mathilde e Selma, ma anche Amin, vestono i panni di condannati perché considerati traditori nei confronti dei paesi da cui provengono e degli usi e abitudini. È daccordo nel dire che senso dappartenenza e tradimento costituiscano i motori del respiro, i polmoni de «Il paese degli altri»?

Sì, in effetti, tutti questi personaggi hanno l’impressione di essere in disaccordo con se stessi, di aver rinunciato alla propria identità o alla propria cultura, di esserne stati strappati. Tutti provano una sensazione di solitudine molto profonda perché non è più possibile per loro godere della comodità semplice di appartenere a un campo o all’altro. Tutto ciò è evidentemente esasperato dal contesto coloniale: Amin si sente espropriato del proprio paese, disprezzato, e Mathilde è vista alla stregua di una paria perché ha sposato un uomo arabo.

Lamore sembra essere la prerogativa necessaria per riuscire a resistere ne «Il paese degli altri». Quando esso si degrada, come resistono i suoi personaggi allo straniamento che caratterizza le vite di coloro che restano straniere e stranieri in un altrove quotidiano e in cambiamento?

Se resistono credo sia perché hanno profonde ambizioni che li animano (coltivare la sua fattoria per Amin, essere una madre amorevole e curare la gente per Mathilde) ma anche perché sono spiriti liberi. Si rifiutano di cedere, di fare concessioni o di lasciarsi abbattere dal peso delle umiliazioni che subiscono. Tutti i miei personaggi sono, credo, combattenti che ritengono che non ci sia davvero altra scelta che combattere. È in effetti per questo motivo che questa prima parte della mia trilogia è intitolata La guerra, la guerra, la guerra.

La famiglia protagonista vive in una fattoria sulle colline attorno a Meknes. La vita contadina viene descritta con grande realismo. Come è riuscita a coniugare le facce di un mondo in cui la dimensione del ripiegamento protettivo dalle sommosse cittadine fa da controparte allidea che la vita in campagna sia in realtà un obbligo inderogabile una sorta di schiavitù dalla terra?

Ho voluto fare di questa fattoria una sorta di isolotto, un luogo lontano dal resto del mondo. Questa distanza dà sia la sensazione di essere protetti dalla violenza esterna, ma procura anche ai personaggi una sensazione di paura e solitudine. Sono stata ispirata sia dai miei ricordi personali, nella fattoria dei miei nonni, sia dalle storie che mi hanno raccontato a proposito della loro giovinezza in questo posto. Era una vita molto dura, dove il clima era torrido oppure gelido, dove le condizioni materiali erano estremamente modeste. A questo si sono aggiunte immagini mentali, in particolare di autori americani che mi piacciono come Faulkner o Flannery O’Connor. Volevo fare di questa fattoria la mia piccola Alabama.

«Non ho altra scelta che la solitudine. Nella mia situazione, che vita sociale vuole che abbiamo. Lei non immagina cosa significhi essere sposata con un indigeno, in una città come questa». Nelle parole che Mathilde pronuncia parlando di sé a Corinne, la scelta del termine indigeno rivela la gravità dei pregiudizi legati ai matrimoni misti tra donne europee e uomini africani. Quanto lappropriazione coloniale e la dominazione sui corpi viziano i rapporti tra i suoi personaggi?

A quel tempo, l’idea che una donna bianca potesse sposare un indigeno era del tutto disapprovata. Si riteneva infatti che non solo avesse tradito la propria comunità, ma che fosse anche un po’ perversa sul piano sessuale. Come poteva mai una donna bianca correre selvaggiamente tra le braccia di un uomo dalla pelle scura e accettare che il suo sangue fosse contaminato da quello di un indigeno? Certamente, la questione sessuale è al centro del libro perché la colonizzazione è stata una grande impresa di scompenso sessuale. Si diceva agli uomini bianchi: «Andate alla conquista di questi territori, comportatevi da uomini, da avventurieri. Potrete disporre della terra e dei corpi delle donne». Volevo che questa violenza dei corpi fosse presente nel corso di tutto il romanzo.


(il manifesto.it, 5 ottobre 2020)

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