24 Dicembre 2021
Elle

L’eredità di Joan Didion: i libri più belli della scrittrice da (ri)leggere per celebrarla

di Elena Fausta Gadeschi


Le prime pagine iniziò a scriverle all’età di cinque anni, ricopiando i racconti di Hemingway, ma Joan Didion cominciò a sentirsi una scrittrice solo dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Run River nel 1963. Quasi sessant’anni dopo quel debutto è inevitabile interrogarsi sull’eredità artistica e umana di una donna che ha attraversato la letteratura di mezzo secolo rimanendo sempre fedele a se stessa e al suo stile narrativo atroce e affilato e che ieri ci ha lasciato all’età di 87 anni.

Giornalista, autrice e acuta osservatrice della politica e della cultura americana contemporanea, Joan Didion è scomparsa ieri nella sua casa di Manhattan, New York, per il morbo di Parkinson, che da anni non le dava tregua e che ne aveva assottigliato sempre di più corpo e voce. Tra gli autori più rappresentativi del New Journalism, uno stile giornalistico anticonvenzionale tipico degli Anni 60 e 70, capace di mescolare narrativa e saggistica, letteratura e verità, Didion è stata per lungo tempo in odore di Nobel, fin da quando nel 2005 vinse il National Book Award per la saggistica per il suo capolavoro L’anno del pensiero magico. Un riconoscimento tardivo arrivò dalle mani del presidente americano Barack Obama, che nel 2013 le conferì la National Humanities Medal, quando era già molto debilitata nel fisico.

Nata a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934, Joan Didion da bambina non frequentò le scuole regolarmente. A causa della professione del padre, membro delle United States Army Air Forces durante la Seconda Guerra Mondiale, era spesso costretta a continui trasferimenti con la famiglia e questo contribuì a fare di lei “un’eterna estranea” come poi scriverà nel suo memoir del 2003, Where I was from (Da dove vengo). Timida e riservata, trovò consolazione nei libri, specialmente nelle biografie per adulti per le quali si faceva rilasciare un permesso speciale dalla madre da esibire in biblioteca. Proprio il genere biografico diventò uno degli ingredienti principali della sua prosa, dove al resoconto giornalistico si univa la soggettività dell’autrice, che tra gli Anni 60 e 70 diventò la voce femminile più rappresentativa all’interno di un movimento maschile come il New Journalism, che annoverava autori quali Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Talese.

Nel 1956 si laureò presso l’Università della California, Berkeley con un Bachelor of Arts in Lettere. Durante il secondo anno di studio a 21 anni vinse un concorso di saggistica sponsorizzato dal mensile di moda “Vogue” che le affidò un lavoro come assistente alla ricerca presso la rivista. In quegli anni lavorò prima come copywriter e poi come redattrice, mentre completava il suo primo romanzo, Run River, pubblicato nel 1963 (Il Saggiatore, 2016). Successivamente lasciò New York e nel 1964, dopo aver sposato lo scrittore, giornalista e sceneggiatore John Gregory Dunne, si trasferì in California. Nel 1968 pubblicò Verso Betlemme (Il Saggiatore, 2008), il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli sulla propria esperienza in California, dove trascorrerà gran parte della sua vita. Il libro è un disincantato viaggio attraverso la promessa e la dissoluzione della controcultura californiana degli Anni 60, che tanto influenzerà la sua esperienza umana e professionale. «Un luogo – scrisse una volta – appartiene per sempre a chi lo rivendica più duramente, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, lo modella, lo rende, lo ama così radicalmente da rifarlo a sua immagine».

Nel 1979 esce The White Album (L’album bianco), un’altra raccolta di articoli pubblicati in precedenza su riviste quali “Life”, “Esquire”, “The Saturday Evening Post”, “The New York Times” e “The New York Review of Books”. A quelle pagine appartiene una delle sue citazioni più famose: «Raccontiamo storie a noi stessi per vivere». Prendila così, ambientato a Hollywood, viene pubblicato nel 1970, a cui segue nel 1977 Diglielo da parte mia. Nel 1984 viene dato alle stampe un altro romanzo, Democracy, che narra la storia di un amore non corrisposto tra una ricca ereditiera e un uomo anziano, agente della Cia, sullo sfondo della Guerra Fredda e della Guerra del Vietnam.

A seguito della morte del marito, con il quale aveva lavorato fianco a fianco scrivendo molti soggetti per film come Qualcosa di personaleL’assoluzioneÈ nata una stellaMa che razza di amici!, e della dura malattia della loro figlia adottiva Quintana, Joan Didion scrive L’anno del pensiero magico. Iniziato il 4 ottobre 2004, viene terminato 88 giorni dopo, il giorno della vigilia di Capodanno. La sua pubblicazione e il tour di promozione del libro, corredato da diverse letture pubbliche e interviste, tengono impegnata l’autrice, aiutandola a elaborare il lutto. «Ci siamo evoluti in una società in cui il lutto è totalmente nascosto. Non si svolge nella nostra famiglia. Non si svolge affatto», disse una volta all’Associated Press nel 2005. Dopo essersi ripresa da uno shock settico causatole da una polmonite, la figlia morì di pancreatite acuta il 26 agosto 2005, all’età di 39 anni. Per lei Didion scrisse nel 2011 alcune delle pagine più belle dedicate al dolore in Blue Nights.

Molto protettiva nei confronti del suo lavoro, Joan Didion non rivelava mai nemmeno agli amici intimi il nuovo argomento del suo libro fino a quando non era pronto per la pubblicazione. Faceva parte della serietà con cui interpretava il suo ruolo di acuta osservatrice e implacabile giudice. Preveggente e inaspettata, era la Cassandra del nostro secolo. E ci mancherà anche per questo.


(Elle, 24 dicembre 2021)

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