21 Gennaio 2009

“L’esate che perdemmo Dio” di Rosella Postorino

Luisa Cavaliere

Un testo incandescente.
L’autrice è giovanissima, ha un tratto gentile ed è di rara modestia.
Il libro è un racconto che parla di noi, e affida la narrazione a una bambina innocente e adulta insieme; consapevole e ignara come l’infanzia sa essere.
Parla di quanto difficile sia essere meridionale. Di quanto coraggio (e lo dico senza retorica senza, cioè, quella malattia che spesso prende le rappresentazioni del sud che noi meridionali facciamo) ci voglia per non cadere prigionieri di dinamiche che soffocano la libertà, tolgono la gioia, mortificano la vita.
L’impatto con il male assoluto che le organizzazioni criminali rappresentano per la nostra realtà viene descritto con inaudita sapienza e con una tensione (che non esito a definire politica) che lascia senza fiato.
Lo dico per cercare di spiegarmi: altro che Gomorra o, che forse è meglio, oltre Gomorra.
Qui si analizzano i legami, le complicità, i silenzi di una condizione che sembra un destino.
Ed è Laura la madre di Caterina la narratrice, che rompe il gioco indicando nell’esilio, nello sradicamento, la salvezza.
Straordinario è il pezzo che racconta di Salvatore, il padre, che torna al paese per partecipare a un funerale familiare e che è una vera prova del fuoco: da una parte le seduzioni del passato dall’altra le bambine e la moglie che lo aspettano in altitalia per salvarsi.
Non c’è una concessione ai luoghi comuni, non c’è una banalità, non c’è un eccesso, non c’è compiacimento. C’è la grande letteratura.
Parla di lei di noi e lo fa conservando il suo status di giovane donna colta, straordinaria osservatrice grandissima narratrice
Basterebbe saper ascoltare quello che le donne dicono, scrivono, pensano, praticano, per trovare una via di uscita dal grigio che sembra sommergere le nostre giornate.

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