26 Luglio 2014
il manifesto

L’etica delle relazioni di Carol Gilligam

di Alessandra Pigliaru

Saggi. «Le virtù della resistenza» della studiosa statunitense Carol Gilligan per Moretti&Vitali. Un testo che tesse una fitta trama multidisciplinare per svelare la genesi femminista di una teoria radicale della resistenza al potere

 

È il 2009 quando Carol Gil­li­gan, psi­co­loga e ricer­ca­trice sta­tu­ni­tense nota gra­zie al suo for­tu­nato libro del 1982, In a dif­fe­rent voice (Con voce di donna), decide di ripren­dere alcuni temi ricor­renti della sua ricerca: anzi­tutto pro­se­guire il lavoro comin­ciato più di vent’anni fa intorno all’etica fem­mi­ni­sta della cura. A riguardo, l’arcipelago di idee è piut­to­sto com­plesso: la voce, l’ascolto e il rico­no­scersi già e sem­pre in rela­zione, non l’hanno mai abban­do­nata e vanno a com­porre il libro pub­bli­cato nel 2011, Joi­ning the resi­stance (Polity Press) appena tra­dotto in Ita­lia da Marta Alberti e Sil­via Zanolla con il titolo La virtù della resi­stenza (Moretti&Vitali, pp. 167, euro 16) e un’introduzione di Fede­rica Giar­dini alla quale è alle­gata anche un’utile biblio­gra­fia ragio­nata.
Al cen­tro della rifles­sione di Carol Gil­li­gan ritorna dun­que la voce, per signi­fi­care al con­tempo un pen­siero già incar­nato e un con­se­guente rifiuto dell’astrattezza del sé – tanto caro alla psi­co­lo­gia. Il dato è diri­mente giac­ché la voce di cui parla l’autrice non attiene solo al feno­meno fisico dell’emissione vocale, bensì alla para­bola stessa della libertà e della auten­ti­cità delle rela­zioni.
C’è dun­que una posta poli­tica che passa per la voce e che diviene la tes­si­tura del nostro stesso agire. La virtù della resi­stenza viene sot­to­ti­to­lato con tre punti nodali che cor­ri­spon­dono ad altret­tante idee per­corse da Gil­li­gan. Resi­stere, pren­dersi cura, non cedere sono infatti la rap­pre­sen­ta­zione di dove la voce si sia depo­si­tata. Di dove si agiti il lin­guag­gio e il suo corpo desi­de­rante. Di dove si sia nasco­sta e da dove non intenda scom­pa­rire. Rispetto al tema della resi­stenza, Gil­li­gan mostra l’ampiezza seman­tica del ter­mine che risponde ad una plu­rale decli­na­zione poli­tica – quando quella voce dice la verità in fac­cia al potere -, e psi­coa­na­li­tica – quando resi­stere signi­fica rilut­tanza ad acco­gliere nella coscienza con­te­nuti rima­sti fuori di essa. È oppor­tuno segna­lare come la resi­stenza poli­tica per Gil­li­gan ha a che fare con la resi­stenza al disa­gio. In que­sto pas­sag­gio le espe­rienze ripor­tate sono nume­rose: penso alle sue inter­vi­ste alle ado­le­scenti e alla sco­perta di una reci­pro­cità della rela­zione tra le inse­gnanti e le stu­denti che apre all’ipotesi di un’interrogazione pro­fonda delle pra­ti­che, anche poli­ti­che.
L’implicazione tra voce e resi­stenza comin­cia dall’emersione di alcune domande: «chi parla e a chi? In quale corpo? Rac­con­tando quali rela­zioni? All’interno di quali strut­ture sociali e cul­tu­rali?». In un oriz­zonte che non si lascia scle­ro­tiz­zare dalla neu­tra­lità della psi­co­lo­gia clas­si­ca­mente intesa, si fa spa­zio la domanda sulla resi­stenza: resi­stere a che cosa e a chi, infine? Per com­pren­dere le dire­zioni rac­chiuse in una que­stione simile, Gil­li­gan stu­dia la dis­so­cia­zione, punto di rot­tura che risente della sepa­ra­zione tra pen­siero ed emo­zione. Si col­loca così in una soglia già con­ta­mi­nata da un sapere trans­di­sci­pli­nare e, senza alcuna esi­ta­zione, crea inter­se­zioni tra psi­co­lo­gia, psi­coa­na­lisi, filo­so­fia, let­te­ra­tura, poe­sia, tea­tro insieme alle stesse vite di chi le si mostra dinanzi, com­presa la pro­pria. Sem­bra infatti che il punto più inte­res­sante stia pro­prio qui: quel che non si lascia cate­go­riz­zare né con­trol­lare appar­tiene all’ascolto, allo scam­bio empa­tico in pre­senza. Ciò accade nella rela­zione poli­tica, tera­peu­tica, di orien­ta­mento didat­tico, di son­dag­gio cono­sci­tivo o sem­pli­ce­mente tra donne e uomini; il pro­getto che spinge in avanti è l’ipotesi di non abdi­care alla pro­pria parte auten­tica in nome di una sepa­ra­zione gerar­chica che fa il gioco patriar­cale.
Nelle ado­le­scenti, ricorda Gil­li­gan, l’iniziazione al patriar­cato è accolta come l’imporsi della rot­tura di rela­zioni signi­fi­ca­tive in nome dell’onore, della norma sacri­fi­cante e dell’affermazione sociale. È pro­prio in que­sto rilievo che le ragazze custo­di­scono la voce più pro­fonda di se stesse, spesso «sepolta ma non per­duta»; resi­stono un momento prima di diven­tare donne – lad­dove donne ha la dop­pia acce­zione di gua­da­gno tra­sfor­ma­tivo e di peri­colo verso un’adesione alle regole impo­ste. Non si tratta tut­ta­via della man­cata com­pren­sione dell’ordine sociale che detta la cre­scita, bensì di un per­corso che Gil­li­gan intra­prende per met­tere in scena rela­zioni che con­tano, di qua­lità, e che hanno la forza di sot­trarsi alla logica sca­dente del patriar­cato — o forse dovremmo dire di ciò che di esso soprav­vive. Come viene notato fine­mente da Alberti e Zanolla, la cate­go­ria del «genere» è trat­tata da Gil­li­gan sia come dispo­si­tivo rin­for­zante i canoni iden­ti­tari sia come qual­cosa che cor­ri­sponde più alla dif­fe­renza ses­suale e incar­nata di uomini e donne.
«In una cor­nice patriar­cale la cura è un’etica fem­mi­nile. In una cor­nice demo­cra­tica la cura è un’etica dell’umano (…) Pren­dersi cura esige atten­zione, empa­tia, ascolto, rispetto (…). È un’etica rela­zio­nale basata su una pre­messa di inter­di­pen­denza. Non è altrui­smo». L’etica fem­mi­ni­sta della cura occorre per libe­rare la demo­cra­zia dalla morsa del patriar­cato, lad­dove quest’ultimo ha una stretta cor­re­la­zione con la fram­men­ta­zione della psi­che e quindi con il trauma.
L’analisi degli albori della psi­coa­na­lisi serve a rav­vi­sarne i cor­to­cir­cuiti: per esem­pio quando Freud inter­rompe una certa forma di inti­mità psi­chica e di rela­zione con le sue pazienti per alli­nearsi alla cul­tura patriar­cale come fatto natu­rale; quando cioè accetta l’equivalenza tra la voce del padre e l’autorità morale. In fondo, e non solo secondo Gil­li­gan, Freud dopo essersi acce­cato da sé come Edipo, pre­tende che le sue figlie lo accom­pa­gnino nella sua cecità. Sof­fe­renza e nevrosi sono ovvia­mente com­prese nel prezzo da pagare. Tut­ta­via è pur vero che que­sta non è l’unica sto­ria di cui pos­siamo avvan­tag­giarci oggi. Su que­sto punto, per esem­pio, come ricorda Fede­rica Giar­dini nella sua intro­du­zione «Il con­ti­nente nero di cui la psi­coa­na­lisi – in modo ana­logo ai saperi basati sull’individuazione e la con­trap­po­si­zione tra il sé e gli altri – non riu­sciva a dare conto è la rela­zione costi­tu­tiva tra madre e figlia. Una rela­zione che non può venire meno, pena la sof­fe­renza psi­chica e fisica, e che non rie­sce a svi­lup­parsi secondo le regole dell’identificazione maschile, il pas­sag­gio ciò dall’attaccamento fusio­nale alla madre alla sepa­ra­zione che avviene attra­verso l’intervento del padre». La deco­stru­zione svolta durante gli anni Set­tanta, soprat­tutto gra­zie al fem­mi­ni­smo, ha mostrato che nono­stante il nodo edi­pico esi­ste dun­que qual­cosa d’altro e che la fram­men­ta­zione della psi­che come spec­chio domi­nante non ha impe­dito di signi­fi­care un’altra nar­ra­zione e pra­tica rela­zio­nale. Esi­ste appunto una scena dif­fe­rente illu­mi­nata da alcune autrici, da Luce Iri­ga­ray a Luisa Muraro, che sim­bo­li­ca­mente è stata assunta anche nel lavoro di Carol Gil­li­gan. Forse per­ché lei non ha ceduto? La domanda è: siamo dispo­ste e dispo­sti anche noi a non cedere?

il manifesto 16/07/2014

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