16 Luglio 2015
BIOETICA Rivista Interdisciplinare

Libertà femminile e bioetica: nuove sfide per la filosofia e la politica

Un percorso nel volume Prospettive femministe (Caterina Botti, Espress Edizioni 2012) di Laura Colombo


Poche decine d’anni sono nulla in confronto ai millenni di egemonia nella storia del pensiero (e non solo) eppure le donne, in un soffio, sono riuscite a dare alla loro presenza il segno forte della consapevolezza e così il pensiero femminista oggi può dare un ricco contributo alla riflessione morale, “quando essa si articoli intorno ad alcune questioni che caratterizzano la nostra quotidianità”[1]. Questa la tesi che sottende il volume di Federica Botti Prospettive femministe, che si addentra nei temi classici della bioetica – aborto, pma, neonati estremamente prematuri, fine vita – orientandosi con l’elaborazione femminista per proporre una nuova visione. Il corpo femminile è stato il luogo di conflitto fra uomini e donne, la posta in gioco essendo il controllo del corpo fertile e il dominio maschile. “L’idea che le donne siano più prossime al mondo materiale, ai sensi, alla generazione, all’animalità, alla natura e lontane o prive di ragione e, in quanto tali, soggetti inferiori o più deboli o comunque da tutelare, resiste anche al variare dei paradigmi filosofici e delle interpretazioni di questi stessi termini, come anche ai cambiamenti sociali che avvengono nei secoli successivi”[2].

Tuttavia a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la Storia è stata attraversata da forti passioni politiche, dalla ribellione dei giovani, dalla ricerca di culture alternative a quella occidentale e in questo clima prende avvio il movimento delle donne, o meglio, il femminismo della seconda ondata. Come spiega bene Caterina Botti nella prima parte del suo volume, si possono “distinguere due strategie femministe. La prima è quella cha ha per fine l’emancipazione (o liberazione) della donna da una condizione di oppressione e discriminazione. […] Venendo, invece, al femminismo radicale e poi a quello della differenza, lo scopo in questo caso è quello di conquistare la libertà (e non l’emancipazione o la liberazione) delle donne; soprattutto la libertà di rappresentare se stesse a partire da sé, non negandosi nella figura dell’androgino o dell’astratto «essere umano», né assimilandosi all’uomo né tantomeno rimanendo prigioniere della rappresentazione maschile della donna”[3]. A mio parere è precisamente questo il punto: in un clima politico attraversato dai movimenti, il femminismo della seconda ondata nasce distaccandosi dalle loro ideologie, dal loro linguaggio, dalle loro pratiche, nasce con il gesto della separazione dalla politica degli uomini per formare gruppi di sole donne. È stato un gesto pratico e simbolico di enorme portata: non era contro gli uomini ma per l’indipendenza da loro sguardo e dal loro giudizio, in altri termini era la fuoriuscita delle donne dall’ordine simbolico patriarcale. Per questo quella femminista è stata definita l’unica rivoluzione riuscita del Novecento, per aver incrinato un ordine che sembrava immutabile. È stata una rivoluzione dell’ordine simbolico: pensiamo al rapporto tra i sessi, cambiato completamente a causa del femminismo. La modificazione è stata rapidissima rispetto alla storia millenaria del patriarcato, che legittimava (nel senso di un’ovvietà insita nel rapporto stesso) il dominio maschile sul corpo femminile. Non sono finiti i soprusi e le violenze maschili, ma l’ordine simbolico che nella storia ha significato l’inferiorità femminile, la sottomissione delle donne e la loro costrizione in un destino già scritto è tramontato. Le femministe radicali non chiedono di essere incluse nella civiltà maschile. Invitano piuttosto ad approfittare dell’assenza dalla Storia, per ripensare la vita e il mondo.

Ritengo che la posizione radicale sia anche oggi essenziale, perché i temi bioetici hanno come fulcro il corpo femminile, corpo capace di generare, su cui continua il conflitto fra uomini e donne. Così Caterina Botti, facendo tesoro degli sviluppi del pensiero femminista che non si arrende al nichilismo o al relativismo morale, parte dall’importanza della virtù della cura per mettere al centro la virtù della consapevolezza. Si tratta di una virtù che ha a che fare con la capacità di sospendere i giudizi senza sospendere la cura, anzi di fare della sospensione del giudizio una forma di cura, una trasformazione di sé verso gli altri. Per Caterina Botti, dunque, il punto di partenza per scardinare l’universalismo della morale è l’etica della cura, che “pone al centro la capacità (data o da sviluppare, femminile o umana, a questo punto non è rilevante) di essere solleciti nei confronti dei bisogni degli altri individui nella loro particolarità e nella loro matrice relazionale. L’etica della cura dunque è una moralità dell’agente, più che dell’azione, centrata sull’attenzione alle relazioni e ai diversi contesti in cui gli individui interagiscono, più che su procedure razionali che astraggono dal contesto e dalle particolarità di ciascuno proprie invece delle morali universalistiche”[4]. Per il passaggio dalla virtù della cura a quella della consapevolezza Caterina Botti fa leva sulla possibilità di percepirsi immaginativamente. È, dico io, una posizione pratica che le donne sanno molto bene non a causa di una loro particolare essenza o natura, ma proprio per le invenzioni che hanno saputo trovare dentro a una condizione che le voleva mancanti, invenzioni che hanno portato alla scoperta della singolarità. Le donne hanno saputo fare della singolarità un microcosmo (che è un universo) fatto di materia e spirito insieme, superando la dicotomia patriarcale fra alto e basso, anima e corpo, natura e cultura. Di più, la scoperta della singolarità è già superamento dell’individualismo, per la capacità di percepirsi come essere umano in carne e ossa, già preso in una serie di relazioni. A partire da questa particolare posizione, quindi, è possibile spingersi oltre l’etica della cura e Caterina Botti pone “accanto alla virtù della cura o della sollecitudine, la centralità di una virtù della critica di sé, della consapevolezza dei propri limiti o dell’umiltà. […] Questa virtù dovrebbe rinviare alla consapevolezza che andare incontro agli altri vuol dire anche mettere in discussione ciò che si pensa di sé e di loro, cioè esporsi, ascoltarli e trasformarsi, pur non potendo nel fare questo uscire completamente e da sé e dai propri limiti”[5].

A partire da queste premesse l’autrice, nella seconda parte del suo libro, inizia a descrivere il contributo del pensiero femminista in bioetica, affrontando gli interrogativi morali posti dalle procedure mediche che hanno modificato la nascita, la riproduzione e la fine della vita. Ripercorrendo i punti di vista del femminismo, sottolinea come nell’applicazione ai casi della bioetica il paradigma morale della cura abbia riscosso particolare interesse. Recentemente su questo tema è uscito il libro di Letizia Paolozzi Prenditi cura (et al. 2013), che dà conto delle ultime riflessioni femministe in questo ambito, facendone materia politica, a partire da un documento di un gruppo della Casa Internazionale delle donne di Roma.
Caterina Botti fa riferimento a quella concezione della morale in cui è cruciale la capacità o la virtù di essere solleciti nei confronti dei concreti bisogni degli altri. Capacità o virtù che richiede l’ascolto, il dialogo e l’immaginazione. Quest’ultima ci mette in grado di rivedere e allargare il nostro punto di vista e sentire meglio ciò che è in gioco in una determinata situazione. A mio parere il discorso intorno al corpo diventa filosoficamente e politicamente interessante quando non è separato dalla pratica politica originaria del femminismo radicale, racchiusa nella famosa formula “il personale è politico”, proprio perché da qui può nascere una nuova politica e un nuovo pensiero. La stessa Federica Botti è familiare a questa pratica quando scrive. Possiamo citare, oltre a questo libro, anche il meno recente Madri cattive (il Saggiatore 2007) in cui, a partire dalla sua esperienza, si interroga coraggiosamente sui motivi del silenzio intorno alla gravidanza e sul perché il discorso pubblico eviti di riconoscere le donne come soggetti e agenti morali già in relazione, anche durante la gestazione.

Tornando alla storia che ha accompagnato la legislazione sull’aborto, vediamo come la politica istituzionale abbia dovuto (o avrebbe dovuto) confrontarsi con il discorso femminile sul corpo che proponeva la possibilità di depenalizzare, ovvero sottrarre all’intervento legislativo, un aspetto intimo della realtà umana femminile. Lo Stato sull’aborto non doveva legiferare, ma lasciare alla volontà, ai desideri e alla competenza delle donne la possibilità di risolvere la contraddizione posta da una gravidanza non desiderata, materia che esige il desiderio femminile. Sappiamo bene che il dibattito sulla depenalizzazione è ritornato attuale nel caso del referendum sulla procreazione assistita del 2005. Il punto politico forte del femminismo radicale è quindi, più in generale, che non si tratta di battersi per i diritti delle donne (dove lo Stato è la controparte), ma che lo Stato faccia un passo indietro quando si tratta del corpo delle donne, puntando sullo scambio tra donne, sulla misura e la capacità di autoregolarsi che deriva dalle relazioni e dalle pratiche tra donne. Quindi se guardiamo all’aborto, alle tecnologie riproduttive, alle questioni del fine-vita e in generale alla bioetica, la lotta politica del femminismo radicale è stata ed è la capacità di creare un vuoto di norma e di farne un luogo di effettiva libertà (non di pura licenza) per donne e uomini, con senso di viva responsabilità verso le persone più deboli. Caterina Botti, a partire da questo punto politico, propone una “ricostruzione della moralità […] che parta, in primo luogo, da una considerazione relazionale della condizione umana, che consideri cioè che gli individui nascono, si sviluppano e vivono in reti di relazioni […]; in secondo luogo, che consideri che la moralità o la virtù degli individui si caratterizzi nei termini del loro essere solleciti nei confronti degli altri con cui sono in relazione e abbia quindi a che fare con il saper gestire tali relazioni”[6]. In merito all’aborto, per esempio, Caterina Botti tenta di sciogliere il nodo della presunta colpa etica di chi abortisce, mettendo a tema la competenza morale delle donne. Il valore della scelta femminile, di fronte a una gravidanza o all’aborto, non va rivendicata sulla base di uno spazio vuoto di libertà, ma di uno spazio pieno di responsabilità, che emerge dalla peculiarità dell’esperienza stessa della gravidanza. “La donna è quindi sì libera di decidere, ma non lo fa come una persona qualsiasi, lo fa come colei che è in quella specifica relazione e se ne sente responsabile”[7]. I conflitti ci sono, in primis con l’altro sesso, ma sulla riproduzione la prima parola e l’ultima va lasciata alle donne e ciò non significa negare la parola agli uomini ma dare valore al conflitto, sia quello interno a sé che quello con l’altro, proprio perché vi è una forte asimmetria delle parti in causa che deve essere riconosciuta per creare lo spazio in cui la parola può darsi. Nella gravidanza il corpo femminile fa esperienza dell’essere due in una, posizione che scalza immediatamente quella dei diritti contrapposti (il diritto alla vita dell’embrione, quello della donna di abortire, quello dell’uomo di diventare padre): è dall’accettazione profonda da parte della donna della vita che ha dentro, dal consenso che intimamente lei dà, che può svilupparsi una relazione con la creatura che porta in grembo e una nuova vita umana. Per questo sull’aborto Caterina Botti riprende la posizione della depenalizzazione, per rimettere al centro la responsabilità delle donne. Dando valore alla loro scelta e competenza di diventare o meno madri, viene riconosciuta la responsabilità esercitata nelle relazioni, a partire da quella con l’embrione e poi quella con l’eventuale partner e gli altri significativi per sé.

Il tema della responsabilità, insieme a quello dell’asimmetria tra i sessi, ritorna anche quando si parla di procreazione assistita. Caterina Botti ci tiene però a ribadire che non c’è misura esterna che possa dire cosa è giusto fare, non c’è un ordine superiore, ma si tratta di fidarsi e di confidare nelle relazioni. L’unica cosa che, di nuovo, può fare ordine è il primato della soggettività femminile, con le sue competenze e il suo maggiore coinvolgimento, non solo mentale e immaginativo, ma anche fisico. “La mia tesi è che a causa della specialissima relazione che instaurano con il feto durante la gravidanza, le donne avvertono […] in modo più pressante la responsabilità della scelta e quindi decideranno con più attenzione e scrupolosità, ponderando in modo migliore le informazioni disponibili, ovverosia in modo responsabile”[8]. Passando dal livello morale al livello legale, ancora una volta queste considerazioni dovrebbero portare a scegliere impianti normativi leggeri. Speriamo che Botti in un futuro libro affronti in modo più approfondito le problematiche che riguardano la procreazione surrogata (la scelta della maternità per altri), qui solo accennate.

Anche riguardo al delicato tema del fine-vita e del testamento biologico, Caterina Botti parte dalla consapevolezza delle competenze delle donne, che da sempre si sono occupate non solo di nascite e bambini, ma anche di malati, anziani e moribondi. Ancora una volta, il principio morale della libertà (non disincarnata) e della responsabilità può offrire un orientamento, perché si basa sulla centralità della soggettività e della relazione con l’altra, l’altro. Così Caterina Botti presenta un ulteriore rovesciamento di prospettiva: partendo dai diritti dei malati arriva ad argomentare l’indifendibilità, da un punto di vista morale, di un medico che non tenga conto delle volontà del paziente. Certamente il discorso della soggettività e della scelta del paziente è più delicato e c’è forte disparità tra medico e paziente. Tuttavia, sulle relazioni “dispari” l’esperienza femminile del prendersi cura di una creatura piccola, totalmente dipendente, ha molto da dire. Quindi di nuovo assume una posizione di primo piano la relazione, l’unica dirimente: in questo caso si tratta della relazione medico-paziente, ma anche della relazione tra il paziente e la persona di fiducia scelta, se si tratta di un eventuale testamento biologico.

In conclusione, questo libro ci mostra che in questo momento storico a dir poco difficile, assumere come orientante il punto di vista soggettivo delle donne con le loro competenze relazionali, ci permette di ripensare la civiltà, tenendo insieme responsabilità e libertà.

[1] C. Botti, Prospettive Femministe, Espress Edizioni, Torino, 2012, p. 89

[2] Ivi, p. 20

[3] Ivi, p. 29

[4] Ivi, p. 47

[5] Ivi, p. 56

[6] Ivi, p. 109

[7] Ivi, p. 111

[8] Ivi, p. 163


(BIOETICA Rivista Interdisciplinare, Anno XXII n. 1-2, dicembre 2014)

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