7 Gennaio 2023
Alias - il manifesto

Lilia Giugni, contro la rivoluzione sessista

di Farian Sabahi


«Campagne di diffamazione, insulti sessisti, minacce di stupro e di morte stanno colpendo ricercatrici, giornaliste e attiviste sulla rete», osserva l’attivista femminista Lilia Giugni. Autrice del saggio La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere) per Longanesi (pp. 300, euro 19), insegna Innovazione sociale all’Università di Bristol ed è ricercatrice associata presso l’ateneo di Cambridge.

Di questi tempi giornaliste e accademiche che si occupano di Iran vengono attaccate sui social e accusate di essere agenti della Repubblica islamica, laddove hanno invece sempre lottato per i diritti umani. Come si spiega?

Questo fenomeno è figlio della cultura patriarcale che, sia pure in modi diversi, sopravvive in tutto il pianeta, e porta utenti della rete (principalmente, anche se non esclusivamente, uomini) a tentare di zittire le donne che dicono la loro. A volte ci troviamo di fronte a episodi di violenza politica organizzata, di matrice quasi squadrista. Accade, per esempio, che operatori politici con pochi scrupoli sguinzaglino i propri follower contro una donna, non solo e non tanto per danneggiare lei specificamente, quanto per consolidare e compattare il proprio seguito fornendo loro una nemica, o magari per seminare divisioni all’interno di uno schieramento. In altre parole, le donne vengono sacrificate sull’altare della costruzione o della manipolazione del consenso, che al giorno d’oggi passa soprattutto per il web.

In quali paesi si è verificata una campagna di denigrazione per delegittimare giornaliste e accademiche?

Nel Brasile di Bolsonaro la giornalista Patricia Campos Mello, voce critica dell’ex presidente, ha subito per anni pesantissime minacce sia contro lei stessa sia contro la sua famiglia. In India la reporter Rana Ayyub, autrice di un libro inchiesta che indagava le responsabilità governative nelle violenze contro la popolazione musulmana del Gujarat, è stata ricoverata dopo che la diffusione online di un falso video pornografico le ha scatenato contro un’autentica persecuzione. Nella Russia di Putin, sono note le azioni delle «brigate del web», orde di «bot» (account automatici) con cui vengono prese di mira le oppositrici del Cremlino sia in patria sia all’estero. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia abbondano i casi di donne prese d’assalto sui social quando si occupano di diritti di genere, migrazione, razzismo e cambiamento climatico.

Come mai sono in primis le donne a essere prese di mira?

Entrano in gioco misoginia e pregiudizi sessisti, che si traducono nel tentativo di privare le donne della libertà di prendere spazio sulla scena pubblica. I politici hanno imparato che sobillare gli utenti social contro le donne ha un ritorno. La strategia di monetizzazione delle piattaforme digitali si fonda sull’estrazione dei dati dell’utenza, e quindi sul tentativo di tenerci tutte e tutti il più possibile attaccati alla tastiera. Questo modello di business spinge le piattaforme a favorire, con espedienti, la circolazione di contenuti divisivi, e incoraggia la diffusione di disinformazione e la radicalizzazione dell’utenza. Un cocktail micidiale, che gioca un ruolo chiave nel meccanismo della violenza di genere online.

Come funziona la campagna di legittimazione in termini di retweet?

A dare il là a un attacco social è la pubblicazione di un primo post condiviso da un account con un numero cospicuo di follower, che genera uno tsunami di messaggi contro la donna di turno. Donald Trump, ad esempio, si serviva regolarmente di questo schema contro oppositrici e critiche, prima di essere bannato da Twitter in seguito all’assalto al Campidoglio. Nel caso delle giornaliste, sono le sezioni commenti e le pagine social a diventare teatro di abusi. Per questo, giornali come il britannico The Guardian, hanno scelto di precludere la possibilità di commentare per proteggere le reporter.

Come ci si può difendere?

Tante organizzazioni internazionali, dall’Osce all’International Federation of Journalists, hanno lanciato programmi per sostenere la sicurezza e la libertà di parola delle giornaliste.

Anche le università stanno diventando più consapevoli e pronte a tutelare le ricercatrici. Nel mondo le donne si stanno organizzando in network e reti per proteggersi e per sostenersi. In Italia, pensiamo a “Giulia Giornaliste” [https://giulia.globalist.it/]. A restare vulnerabili sono le croniste freelance, le accademiche precarie, le più giovani e prive di un qualsiasi sostegno istituzionale. In ogni caso, la responsabilità di sconfiggere la violenza di genere non dovrebbe gravare sulle donne, servono interventi politici e giuridici.


(Alias – il manifesto, 7 gennaio 2023)

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