28 Gennaio 2005
la Repubblica

L’inferno indiano

Intervista/ Parla Mahasweta Devi , scrittrice bengalese, che vince domani il Nonino
‘La cronaca è quella che mi ispira e le ingiustizie di ieri e di oggi come la schiavitù per debiti’ Ha settantanove anni e da sempre denuncia le miserie della sua gente oppressa da leggi arcaiche
Natalia Aspesi

Questa signora spiccia e per niente fragile, che sbatte nervosamente un angolo del suo sari color sangue sulla spalla del golf di lana grigia, chiede pasta all’ amatriciana ed è già infastidita dagli sguardi occidentali che si commuovono per i suoi eroismi e per i suoi 79 anni che si vorrebbero tremuli e invece sono duri e combattivi, è la più famosa eroina di un’ India che anche gli indiani non conoscono, la cantastorie irrefrenabile, puntigliosa, implacabile, di soprusi, miserie, crudeltà, tirannie, sfruttamento, annientamento, dolore, di popoli cancellati dal vorticoso progresso del paese, dove gli ingegneri informatici sono milioni e migliaia le grandi aziende occidentali che ricorrono alla loro sapienza comunque sottopagata. Già rabbuiati dai nostri problemi certo meschini, ci siamo abituati ad addolcirci con certe finte mille e una notte contemporanee, con l’ India giocosa, matrimoniale e ballerina dei film di Gurinder Chada e Mira Nair, con l’ India borghese e benestante dei bei romanzoni pieni di intrighi d’ amore di Vickram Seth, o con quella fresca e romantica della giovanissima Rupa Bajwa, che ha appena vinto il premio Grinzane Cavour per gli esordienti. Ma si sa che la giuria del premio Nonino è spietata e incorruttibile come un manipolo di samurai, orgogliosamente la sola delle migliaia di compiacenti giurie ad avere come suo massimo pregio quello di scartare ogni indulgenza, ogni faciloneria, ogni opera che corra il luttuoso pericolo di diventare di moda, forse per questo prendendo in considerazione le donne, ritenute portatrici di banalità, con una parsimonia talvolta punitiva. Questa volta ha dovuta mettere da parte la sua dotta misoginia perché, per gli strani scherzi del destino, il suo giudizio severo e adamantino si adattava perfettamente all’ opera letteraria e all’ impegno sociale e politico di questa colta, appassionata, combattente signora indiana, Mahasweta Devi: in India lei è una celebrità venerata e ha vinto tra l’ altro il premio Magsaysay, una specie di premio Nobel dell’ Asia, mentre da noi, e questo piace al Nonino che odia l’ ovvio e il risaputo, è quasi sconosciuta, se non per suoi accaniti esegeti come gli studiosi Italo Spinelli e Anna Nadotti; è stata lei a convincere l’ Einaudi a non considerare una follia la traduzione dal bengalese e uno spreco la pubblicazione di un timido libricino composto da sette racconti scritti tra il 1970 e il 1990, uscito pochi mesi fa col titolo La preda. Un solo altro racconto, “La cattura”, era già stato edito da Theoria nel ’96, oggi introvabile, e in un volumetto intitolato India Segreta, del ’99, La Tartaruga aveva inserito tra diciotto racconti di donne anche uno della Devi, lo stesso, durissimo, che ritroviamo in La preda. In più fa molto Premio Nonino e quindi Magris, Olmi, Naipaul, Le Roy Ladurie e gli altri delle giuria, che queste storie, estratte da una immensa mole di lavoro in bengalese, riunita in 42 volumi (opera omnia che l’ editrice indiana Seagull ha iniziato a pubblicare in inglese), paiano leggende sprofondate in tempi di primitive, perdute disperazioni e invece eccole qua, sono tuttora possibili, vere: viste, testimoniate, oralmente tramandate, raccontate e raccolte dall’ implacabile stanatrice di ingiustizie e assurdità raccapriccianti: dove il bersaglio di ogni sopruso e privazione e disumanizzazione riesce a conservare ironia e dignità, paura ma anche fierezza. Domani, i mille invitati nelle nuove distillerie della casa, confortati dall’ oblio imposto dall’ accostamento paradisiaco di brovada e muscetta e stupendamente storditi dalle esalazioni delle nuove grappe, dalla signora Devi, nuovo “Maestro del nostro tempo”, saranno subito messi in riga, estratti dal loro assonnato benessere, strappati alle morbidezze dei torroni e alla sensualità delle frittelle e dei balli in costume friulano, con le sue tragiche fiabe vere. «Erano gli anni ’80, molto tempo fa ma poi non tanto, nella regione di Palamau nell’ India Occidentale, una regione molto povera, popolata da intoccabili, emarginati, e soprattutto adivasi, cioè aborigeni che occupavano le terre prima dell’ arrivo degli altri popoli conquistatori che gliele portarono via. C’ era un sole insopportabile, e un vecchio sciancato trascinava un carro pesantissimo con una fatica sovrumana. Chiedo: “Perché quell’ uomo deve lavorare come una bestia da soma?”. E il proprietario del carro, serafico, risponde: “Per salvare il mio manzo, che vale almeno 2.000 rupie e sotto il sole creperebbe. Invece la vita di quell’ uomo non vale niente, è il mio lavoratore vincolato”. Lavoratori vincolati erano, purtroppo sono, quelli che indebitandosi col padrone per ottenere cibo, ne diventavano proprietà, passando il debito anche ai discendenti, per sempre». Nel racconto “Il sale”, le cose vanno così. Nel villaggio arrivano i giovani attivisti e spiegano al padrone che il betbegari, la schiavitù per debiti, è diventata illegale, che i contadini vanno pagati. “Bene”, dice il padrone, e per vendetta, lui che possiede anche tutti gli spacci, fa scomparire il sale. Senza sale non si ha la forza per lavorare: inizia qui una magnifica lotta fatta di astuzia, di appostamenti, di fughe, tra i contadini a caccia del sale e gli intelligenti elefanti che vogliono proteggere il saled che gli viene dato dalle guardie forestali. Vinceranno naturalmente l’ elefante solitario ed il padrone. Dice la signora: «Io vedo continuamente, con i miei occhi, la brutalità del sistema esistente, quello che separa totalmente l’ India che progredisce e che raggiunge il benessere da quel quarto di miliardo dei suoi abitanti che resta escluso da tutto, abbandonato e ignorato. I miei racconti nascono dalla cronaca vera, dagli orrori cui assisto, e che mi hanno fatto entrare in gruppi di azione e difesa come quello per i diritti delle tribù nomadi declassificate». Qui i racconti di Devy si fanno più spaventosi. Nel 1871 gli inglesi classificarono come criminali circa 250 antiche tribù nomadi che vivevano nella foresta, fuori da ogni casta, istituendo un Criminal Act che bollava come pericolosi anche i neonati. Dopo l’ indipendenza le tribù sono state declassificate, ma solo formalmente. Così gli arresti, le torture, gli assassini senza ragione da parte di una polizia particolarmente feroce, di un Sabar o di un Lohdas, sono continuati. Devi ha lottato per restituire giustizia a questi innocenti, i corpi alle loro famiglie, e ne ha scritto racconti freddi, quasi ironici, semplici e strazianti. «La mia esperienza mi fa essere perpetuamente arrabbiata, ci sono sfruttatori e forme di sfruttamento imperdonabili. E dal momento che io credo nella collera, in una violenza giustificata, strappo la maschera all’ India progettata dal governo, per denunciarne la brutalità». Una delle passioni di Mahasweta Devi è raccogliere le parole delle molte lingue e dei tanti dialetti indiani, prendere nota delle tradizioni che diventano racconti. Come la storia dei dombasi, che sposano la bambina primogenita al dio Venkateshwar Shiva. Quindi i famigliari maschi costruiscono per lei una capanna vicino a casa dove deve prostituirsi apertamente, consegnando tutti i guadagni ai genitori. Il villaggio la onora come sposa di Shiva. Quando non può più vendersi, le procurano una capanna lontano e sarà libera di fare quel che vuole. La signora Devi è nata nel 1926 a Dacca oggi Bangladesh, in una famiglia hindu ma laica, di casta alta, figlia di un famoso poeta, Manish Ghatak, uno zio celebre regista, Ritwik Ghatak: laureata in letteratura inglese, si è sposata due volte e due volte ha divorziato, ha un solo figlio, scrittore. Vive a Calcutta, viaggia instancabilmente tra adivasi, tribali, intoccabili, dirige un giornale in cui i senza voce possono esprimere richieste e desideri. Ha fatto parte da ragazza dei giovani comunisti, ha assistito alle rivolte dei braccianti senza terra e degli studenti degli anni Sessanta e Settanta, ha trasformato ogni esperienza in romanzi, racconti, articoli, opere teatrali, libri per bambini. Molti film si sono ispirati alle sue opere, importante La madre del numero 1084, diretto da Govind Nihalani. Nelle sue storie gli uomini sono eroi fragili destinati alla sconfitta, le donne delle erinni invincibili, ragazze che umiliano il capo della polizia mostrando il loro corpo nudo e martoriato dalla violenza, belle che non vogliono sottomettersi al desiderio del prepotente e, poiché il loro no non conta, lo fanno fuori a colpi di macete. «Scrivo delle donne perché sono recluse, emarginate, punite. Scrivo di e con gli adivasi. Con Nehru e dopo di lui ci è stata imposta una certa versione della nostra storia alla quale dobbiamo ribellarci. Bisogna avere il coraggio di rileggere, di reinterpretare ogni cosa, il coraggio di andare alla storia non scritta. E’ compito della letteratura dire quale è stata in realtà la storia, soprattutto la storia delle donne. Gli storici dovrebbero leggere molta letteratura per dare forza alle loro argomentazioni». Mahasweta Devi, piccola, anziana, forte, scura, serena e impaziente, storici e letterati, qui, se li mangia in un boccone.

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